L’intuito per capire e l’umiltà per servire gli altri: Enzo Caffarelli ricorda don
Picchi
Un grazie ancora a don Mario Picchi: questo il sentimento che accomuna le tante persone
che da ieri stanno rendendo omaggio al sacerdote nella camera ardente allestita nell’ospedale
Fatebenefratelli di Roma, dove il fondatore del Centro italiano di solidarietà si
è spento sabato scorso, all’età di 80 anni. Domani mattina alle 11.30 si svolgeranno
i funerali nella Basilica di San Giovanni in Laterano. Roberta Gisotti ha intervistato
Enzo Caffarelli, direttore della rivista bimestrale del CeIs, “Il delfino”,
tra i collaboratori di più vecchia data, da quasi 35 anni, di don Picchi. D.
– Quale eredità più grande ha lasciato don Mario Picchi ai suoi più stretti collaboratori? R.
– Sicuramente l’eredità della grande esperienza, del grande insegnamento. Tra le sue
doti, credo che ce ne sia una importante che è l’intuito, l’intuito che don Mario
aveva nel capire le persone, nel leggere nei loro occhi, nel loro cuore e di tirar
fuori il meglio da ciascuno, nel senso che è riuscito egli stesso - e naturalmente
tutti i suoi operatori – a ridare la voglia di vivere a persone che si trovavano veramente
in situazioni disperate, senza speranza, fragili, disorientate per la droga ma anche
per altri motivi. Direi che riusciva a tirar fuori il meglio anche dalle persone importanti.
Lui era capace proprio di attrarre attenzione.
D.
– Diceva don Picchi che il suo “progetto-uomo”, ovvero la sua strategia di porre la
persona umana al centro della storia, non è né una terapia né un metodo…
R.
– E’ una filosofia di vita il fatto di mettere al centro dell’attenzione l’uomo. Certamente
negli ultimi tempi, il CeIs, ma anche alle origini, era proprio aperto a tutti i
problemi. C’è stato un periodo storico in cui la droga è diventata una grandissima
emergenza, con una diffusione enorme, come tutti sappiamo e in quel periodo il Ceis
di Roma ha focalizzato l’attenzione sulla tossicodipendenza ma senza dimenticare tanti
altri problemi che, con la droga, non hanno a che fare ma che hanno a che fare da
una parte con la sofferenza, con l’emarginazione, con la disperazione e dall’altra
con la solidarietà e l’accoglienza.
D. – C’è un aggettivo
che può delineare l’animo di don Picchi?
R. – Direi
che più di un aggettivo c’è un sostantivo, che è il “servizio”, cioè la sua idea di
volontariato ma anche di attività retribuita per chi prende stipendi necessari per
vivere ma piuttosto modesti. Lo stile del servizio è fondamentale per porsi nei confronti
degli altri. Direi che è stata un po’ la cifra distintiva di 43 anni spesi a Roma
da don Mario e ancor prima in Piemonte, ma soprattutto da quando venne a Roma nel
1967-1968, a servizio dei giovani, delle famiglie, delle persone in difficoltà.
D.
– C’è un aneddoto che ti piace ricordare di don Picchi?
R.
– Uno lo ricordo bene, all’inizio, nella prima sede del piccolo appartamento in piazza
Benedetto Cairoli – vicino Largo Argentina – che ci era stato offerto da Papa Paolo
VI. Era un appartamento dove ci si trovava, si accoglieva la gente, c’era il centro
studi e così via; mi ricordo che lui era sempre l’ultimo ad andare via, insieme al
suo vice, Juan Pares, che vorrei anche ricordare perché è venuto meno appena sette
mesi fa e quindi il CeIs è doppiamente orfano. Una sera che mi trattenni più degli
altri giorni e ricordo di aver visto don Mario e Juan che pulivano il bagno alla fine
della giornata. Quindi ecco, anche questa grande umiltà. La sua porta era sempre aperta,
poteva veramente entrare chiunque e parlare con lui nonostante il CeIs fosse un’organizzazione
di 150-200 persone, più i volontari, più le centinaia di utenti, più la Federazione
italiana delle Comunità terapeutiche - finché lui è stato presidente -, più tutte
le attività svolte nel mondo. Insomma, don Mario era anche una persona umile, che
sapeva pulire il bagno e che accoglieva in qualsiasi momento chiunque avesse bisogno
di lui.