Il Papa celebra padre Matteo Ricci, nel quarto centenario della morte: il suo esempio
stimoli un nuovo dialogo tra Vangelo e cultura cinese
Il rinnovato incontro tra il Vangelo e la sua “cultura millenaria” permetterà alla
Cina di godere di “frutti abbondanti di bene”. E’ la convinzione con la quale Benedetto
XVI ha terminato questa mattina il suo intervento in Aula Paolo VI. Circa ottomila
persone, prevalentemente in arrivo dalla Regione delle Marche, hanno partecipato all’udienza
concessa dal Papa per il quarto centenario della morte di padre Matteo Ricci. Il gesuita,
originario di Macerata, fu protagonista tra il Cinque e il Seicento di uno straordinario
processo di inculturazione del Vangelo nel grande Paese orientale, assieme ad altri
illustri personalità cinesi del tempo che si convertirono al cristianesimo. Il servizio
di Alessandro De Carolis:
Per capirne
la grandezza, non solo religiosa e mai troppo a lungo celebrata, è sufficiente affacciarsi
nel “Museo del Millennio” di Pechino: in quelle sale, “solo due stranieri sono ricordati
fra i grandi della storia”: uno è Marco Polo, l’altro è padre Matteo Ricci. Lo ricorda,
alla folla del’Aula Paolo VI, un Benedetto XVI che non fa nulla per celare la sua
ammirazione per il missionario gesuita, spentosi a Pechino il 11 maggio 1610. Il “privilegio
straordinario” di essere sepolto in terra cinese, “impensabile per uno straniero”,
dà la misura – ha spiegato il Papa – della stima che arrivò a circondare padre Ricci,
fin nelle stanze dell’imperatore. Tra le figure di “grande statura” che si distinsero
per “lo zelo e il coraggio di portare Cristo in terre nuove e lontane”, padre Ricci,
ha affermato il Pontefice:
“E’ un caso singolare
di felice sintesi fra l’annuncio del Vangelo e il dialogo con la cultura del popolo
a cui lo si porta, un esempio di equilibrio tra chiarezza dottrinale e prudente azione
pastorale. Non solo l’apprendimento profondo della lingua, ma anche l’assunzione dello
stile di vita e degli usi delle classi colte cinesi, frutto di studio e di esercizio
paziente e lungimirante, fecero sì che P. Ricci venisse accettato dai cinesi con rispetto
e stima, non più come uno straniero, ma come il ‘Maestro del grande Occidente’”. E
maestro lo fu davvero, ha proseguito il Papa, nei due versanti che caratterizzarono
la sua missione: l’inculturazione cinese dell’annuncio evangelico e la presentazione
alla Cina della cultura e della scienza occidentali, secondo una visione prettamente
cristiana che non si mette a servizio del sapere, bensì dell’uomo:
“Un
umanesimo che considera la persona inserita nel suo contesto, ne coltiva i valori
morali e spirituali, cogliendo tutto ciò che di positivo si trova nella tradizione
cinese e offrendo di arricchirlo con il contributo della cultura occidentale ma, soprattutto,
con la sapienza e la verità di Cristo. Padre Ricci non si reca in Cina per portarvi
la scienza e la cultura dell’Occidente, ma per portarvi il Vangelo, per far conoscere
Dio”. Ma non avrebbe avuto successo
la sua missione, né se ne comprenderebbe la portata, senza dare il giusto peso, ha
riconosciuto Benedetto XVI, al “ruolo” e all’“influsso” dei suoi “interlocutori cinesi”:
“Le
scelte da lui compiute non dipendevano da una strategia astratta di inculturazione
della fede, ma dall’insieme degli eventi, degli incontri e delle esperienze che andava
facendo, per cui ciò che ha potuto realizzare è stato grazie anche all’incontro con
i cinesi; un incontro vissuto in molti modi, ma approfonditosi attraverso il rapporto
con alcuni amici e discepoli, specie i quattro celebri convertiti, ‘pilastri della
nascente Chiesa cinese’”. In particolare,
il Papa ha ricordato due di questi amici e discepoli: l’allora famoso scienziato e
letterato, Xu Guangqi – che fra l’altro convinse padre Ricci a tradurre in cinese
la più importante opera di geometria della Grecia antica, gli “Elementi” di Euclide
– come pure Li Zihzao, altro studioso convertito al cristianesimo che aiutò il religioso
gesuita a realizzare una moderna edizione del mappamondo, che schiuse ai cinesi una
nuova immagine del pianeta. Fedeltà a Cristo, “profondo amore” alla Cina, intelligenza
e studio, vita virtuosa: Benedetto XVI ha concluso auspicando che il ricordo di padre
Ricci e degli uomini che collaborarono con lui sia, ha detto, "occasione di preghiera
per la Chiesa in Cina e per l’intero popolo cinese, come facciamo ogni anno, il 24
maggio, rivolgendoci a Maria Santissima, venerata nel celebre Santuario di Sheshan
a Shanghai":
“E siano anche di stimolo ed incoraggiamento
a vivere con intensità la fede cristiana, nel dialogo con le diverse culture, ma nella
certezza che in Cristo si realizza il vero umanesimo, aperto a Dio, ricco di valori
morali e spirituali e capace di rispondere ai desideri più profondi dell’animo umano.
Anch’io, come P. Matteo Ricci, esprimo oggi la mia profonda stima al nobile popolo
cinese e alla sua cultura millenaria, convinto che un loro rinnovato incontro con
il Cristianesimo apporterà frutti abbondanti di bene, come allora favorì una pacifica
convivenza tra i popoli”.
Diverse le iniziative in tutto
il mondo, a carattere pastorale e culturale, in omaggio alla figura di padre Matteo
Ricci, nel quarto centenario della sua morte. Fra queste, la composizione di una Cantata
per coro e orchestra, a firma del Maestro Giovanni Allevi, compositore, pianista
e direttore d’orchestra, che oggi in Aula Paolo VI ha consegnato al Papa, in anteprima
mondiale, la prima stesura dell’opera. Dal titolo “Sotto lo stesso cielo”, la cantata
si ispira alla vicenda del missionario che fu pioniere della cristianità in Cina ed
è incentrata sul concetto di amicizia e convivenza pacifica tra i popoli, le chiavi
dell’esperienza missionaria di padre Ricci. Ma cosa l’ha colpito del pensiero del
religioso gesuita? Il maestro Allevi lo spiega al microfono di Claudia Di Lorenzi:
R. – Intanto
una frase, “Sotto lo stesso cielo”, che ricorre negli scritti di Matteo Ricci, perché
lui ipotizza l’idea che Dio abbia creato un universo con un cielo meraviglioso e sotto
questo stesso cielo convivono popoli differenti, culture estremamente differenti,
che però hanno così la possibilità di vivere e di convivere pacificamente. Trovo che
questo sia un concetto modernissimo.
D. – Quali altri
temi del padre Ricci ha riproposto nella Cantata?
R.
– La presenza del pensiero scientifico. Padre Matteo Ricci era uno scienziato, ha
introdotto in Cina l’algebra e quindi ho voluto menzionare anche l’idea che esista
un pensiero scientifico che dà all’uomo la possibilità di conoscere i più remoti angoli
del mondo e della realtà. Ho voluto, però, anche seguire l’idea kantiana per cui il
mondo sensibile trova una sua limitazione nel pensiero scientifico, oltre il quale
però si apre un mistero. E allora, a quel punto, finisce di parlare la scienza e inizia
il cuore, che resta stupefatto di fronte al creato.
D.
– Il testo dell’opera è incentrato sui concetti di amicizia, convivenza pacifica tra
i popoli, di pace universale e accettazione delle diversità multiculturali. Come ha
raggiunto nella composizione questa armonia tra tradizioni, stili e sonorità diverse?
R.
– Mi sono immedesimato nel 1500, 1600 europeo, e ho voluto mettere il contrappunto,
quindi la tecnica rigorosa dell’intreccio delle voci, che ha trovato in quel periodo
il massimo splendore in Europa, vicino ad una melodia costruita sulla scala pentatonica
cinese, a cui è affidata anche una ninna nanna all’interno della composizione. Sentire
questi due mondi musicali avvicinarsi ed intrecciarsi è particolare, fa un bell’effetto.
D.
– La forza evangelizzatrice di padre Ricci stava nel calarsi nella cultura dell’altro,
nel farsi cinese insieme ai cinesi. Anche lei ha avuto modo di approfondire la millenaria
cultura musicale di questo Paese. Quale ricchezza può offrire all’Occidente?
R.
– Intanto, l’idea di una semplicità, di un’immediatezza, di una grande serenità, di
una grande forza interiore.
D. – Alla plenaria del
Pontificio Consiglio per la Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, il Papa ha
ribadito che l’avvenire delle nostre società poggia sull’incontro dei popoli...
R.
– In fondo, la mia Cantata sacra si fonda proprio su questo concetto, il fatto che
è necessario oggi che i popoli ritrovino la possibilità e la capacità di dialogare
e serenamente di scoprire la ricchezza reciproca.
D.
– A questo scopo la musica si fa uno strumento privilegiato...
R.
– Ma certo, in musica è possibile ciò che purtroppo nella realtà geopolitica sembra
appunto irraggiungibile. Per fortuna che c’è l’arte.