Almeno 60 morti in Giamaica, negli scontri tra polizia e narcotrafficanti che proteggono
il boss Coke
Situazione fuori controllo in Giamaica: la capitale Kingston è ormai in stato d’assedio
dopo l’incursione della polizia nel quartier generale del narcotrafficante Cristopher
Coke, di cui gli Stati Uniti vogliono l’estradizione. Finora i tentativi di catturarlo
sono andati a vuoto, ma gli scontri a fuoco hanno causato la morte di almeno 60 persone,
in gran parte civili che non sono riusciti a fuggire. Oltre 200 gli arresti tra i
membri delle gang giunte da tutta l’isola caraibica per proteggere il boss, che gode
anche del sostegno della popolazione specie delle fasce più povere. Gabriella Ceraso
ne ha parlato con Loris Zanatta docente di Storia e istituzioni delle Americhe
all’Università di Bologna: R. – In realtà quello
che sta avvenendo in Giamaica è un fenomeno che si è visto molte altre volte, non
solo in quella regione, ma anche di recente in regioni italiane, all’arresto di pericolosi
criminali. Quello che accade in quella regione, dove lo Stato è particolarmente debole
e fragile, è per l’appunto la nascita di fenomeni mafiosi, in cui sostanzialmente
chi controlla il traffico della criminalità e della droga ha anche profonde ramificazioni
sociali e attraverso, per l’appunto, queste ramificazioni sociali può godere di straordinario
consenso e popolarità.
D. – La rivolta di Kingston, però, è un aspetto di una
situazione drammatica di quest’area, di questi luoghi, che vengono trasformati in
campi di battaglia. Nel 2009, solo in Giamaica, ci sono stati 1900 omicidi...
R.
– Sicuramente la Giamaica, e non da oggi, è un’isola caratterizzata da profonde spaccature
sociali e anche etniche e da violenza. In gran parte è legata al fatto che i Caraibi
sono sempre più diventati nel corso dell’ultimo ventennio, in particolare, punto di
passaggio dei grandi traffici di droga verso il mercato nord americano. E la circolazione
di tanto denaro sporco e la possibilità di accumulazione di ricchezze illecite in
pochissimo tempo genera pressioni straordinarie su tutto il sistema sociale, politico
ed economico.
D. – Il premier ha detto: “La nostra risposta sarà un punto di
svolta per il Paese nei confronti del potere del male”, però si è aspettato forse
un anno prima di concedere l’estradizione. Ci sarà effettivamente questo cambiamento?
R.
– In questi momenti si fanno grandissimi annunci, ma ovviamente combattere un male
così radicato è molto più complesso che non una semplice opera di repressione: richiede
tempi, investimenti di grande portata. In tal senso, diciamo che l’esempio cui può
richiamarsi la Giamaica è quello della Colombia, dove fenomeni simili, anzi su scala
maggiore, li hanno già vissuti e dove però tutto ciò ha comportato grandissima violenza
e anche abusi da parte dello Stato. In quanto al ritardo nell’estradizione, questo
si comprende per tutti questi Paesi, che hanno una storia in taluni casi di protocolonialismo,
di forte dipendenza dalla grande potenza statunitense. Decidere di estradare un criminale
e quindi di stabilire che la propria giustizia non è in grado di dare giustizia, e
accettare l’estradizione, è un pò come rinunciare alla sovranità e questo comporta
anche dei costi politici piuttosto grandi.
D. – Che cosa significa per gli
Stati Uniti, che tanto stanno insistendo, la cattura di quest’uomo?
R. – Per
gli Stati Uniti non importa questo caso in sé, quanto il caso come parte di una battaglia
molto più grande che essi combattono ormai da tantissimo tempo, in cui hanno investito
una grandissima quantità di risorse per sradicare il commercio delle sostanze illecite.
Dal momento che gli Stati Uniti sono il maggior mercato consumatore sono particolarmente
interessati a cercare di contenere e ridurre questi fenomeni, ma non ci stanno riuscendo
fino ad ora.