Caos in Giamaica, scontri a rischio domino in altre città
Rischiano di estendersi anche oltre la capitale giamaicana, Kingston, gli scontri
iniziati la settimana scorsa tra polizia e gang di narcotrafficanti che tentano di
impedire l’arresto e l’estradizione di uno dei potenti boss dell’isola, Christopher
Coke. Almeno 3 i morti e 6 gli agenti feriti finora. Le forze dell’ordine hanno assaltato
il quartier generale di Coke facendo evacuare tutta la zona ovest di Kingston. Chiuso
l’aeroporto ed esteso ad un mese lo stato d’emergenza. A difesa di Coke non solo le
gang giunte da tutta l’isola, ma anche gran parte della popolazione specie le fasce
più povere. Gabriella Ceraso ne ha parlato con Loris Zanatta docente
di Storia e istituzioni delle Americhe all’Università di Bologna:
R. – In realtà
quello che sta avvenendo in Giamaica è un fenomeno che si è visto molte altre volte,
non solo in quella regione, ma anche di recente in regioni italiane, all’arresto di
pericolosi criminali. Quello che accade in quella regione, dove lo Stato è particolarmente
debole e fragile, è per l’appunto la nascita di fenomeni mafiosi, in cui sostanzialmente
chi controlla il traffico della criminalità e della droga ha anche profonde ramificazioni
sociali e attraverso, per l’appunto, queste ramificazioni sociali può godere di straordinario
consenso e popolarità. D. – La rivolta di Kingston, però, è
un aspetto di una situazione drammatica di quest’area, di questi luoghi, che vengono
trasformati in campi di battaglia. Nel 2009, solo in Giamaica, ci sono stati 1900
omicidi... R. – Sicuramente la Giamaica, e non da oggi, è un’isola
caratterizzata da profonde spaccature sociali e anche etniche e da violenza. In gran
parte è legata al fatto che i Caraibi sono sempre più diventati nel corso dell’ultimo
ventennio, in particolare, punto di passaggio dei grandi traffici di droga verso il
mercato nord americano. E la circolazione di tanto denaro sporco e la possibilità
di accumulazione di ricchezze illecite in pochissimo tempo genera pressioni straordinarie
su tutto il sistema sociale, politico ed economico. D. – Il
premier ha detto: “La nostra risposta sarà un punto di svolta per il Paese nei confronti
del potere del male”, però si è aspettato forse un anno prima di concedere l’estradizione.
Ci sarà effettivamente questo cambiamento? R. – In questi momenti
si fanno grandissimi annunci, ma ovviamente combattere un male così radicato è molto
più complesso che non una semplice opera di repressione: richiede tempi, investimenti
di grande portata. In tal senso, diciamo che l’esempio cui può richiamarsi la Giamaica
è quello della Colombia, dove fenomeni simili, anzi su scala maggiore, li hanno già
vissuti e dove però tutto ciò ha comportato grandissima violenza e anche abusi da
parte dello Stato. In quanto al ritardo nell’estradizione, questo si comprende per
tutti questi Paesi, che hanno una storia in taluni casi di protocolonialismo, di forte
dipendenza dalla grande potenza statunitense. Decidere di estradare un criminale e
quindi di stabilire che la propria giustizia non è in grado di dare giustizia, e accettare
l’estradizione, è un pò come rinunciare alla sovranità e questo comporta anche dei
costi politici piuttosto grandi. D. – Che cosa significa per
gli Stati Uniti, che tanto stanno insistendo, la cattura di quest’uomo? R.
– Per gli Stati Uniti non importa questo caso in sé, quanto il caso come parte di
una battaglia molto più grande che essi combattono ormai da tantissimo tempo, in cui
hanno investito una grandissima quantità di risorse per sradicare il commercio delle
sostanze illecite. Dal momento che gli Stati Uniti sono il maggior mercato consumatore
sono particolarmente interessati a cercare di contenere e ridurre questi fenomeni,
ma non ci stanno riuscendo fino ad ora.