Il prete di celluloide: saggio di mons. Dario Viganò sui sacerdoti visti dal cinema
“Il prete di celluloide – Nove sguardi d’autore”, edito da Cittadella Editrice, è
un curioso e godibile saggio a cura di mons. Dario Edoardo Viganò che esplora e racconta
il rapporto tra la figura del sacerdote e lo schermo cinematografico, come questo
sia riuscito a descriverla e narrarla nelle più diverse dimensioni e funzioni. Si
possono così rivivere interpretazioni memorabili e alcune, invece, dimenticate. A
chiusura del saggio, nove coinvolgenti interviste ad altrettanti registi italiani
che hanno affrontato storie sacerdotali con il loro particolare stile e con personale
emozione. Il servizio di Luca Pellegrini:
Nella difficile
cornice entro la quale le società contemporanee interpretano mode, creando e disfacendo
cliché di riferimento, il cinema può offrire sguardi di ri-significazione sulla figura
del prete, contribuendo a ricollocare la sua immagine nell’immaginario sociale e all’interno
delle singole società, con i loro punti di appoggio culturali e le diverse modalità
di comunicazione. Per queste ragioni, e molte altre, il volume dedicato al “prete
di celluloide” può diventare uno strumento di interpretazione culturale e di approfondimento
cinematografico inconsueto, curioso e utile. Ci sono tanti preti che hanno “bucato”
lo schermo nella storia del cinema, alcuni rimasti nella memoria e nel cuore. Nell’ampia
introduzione mons. Dario Edoardo Viganò si sofferma soprattutto
sul prete nel cinema di oggi. A lui chiediamo: quale tipologia di sacerdote viene
maggiormente presa in considerazione nel cinema di questi recenti anni? R.
– La storia del cinema ci ha raccontato molte volte e in molti modi la vita di un
prete. Se guardiamo al cinema italiano, ci ha raccontato dei momenti particolari della
vicenda di un sacerdote e penso anzitutto al momento in cui il prete è l’uomo della
Parola, al momento in cui il prete predica dal pulpito: dei preti a volte noiosi,
a volte impacciati, ma altre volte dei preti che con passione vogliono intercettare
la vita concreta delle persone e, tra questi, ad esempio come non ricordare il prete
del film di “Casomai” di Alessandro D’Alatri. In altri momenti il grande schermo ci
ha raccontato il prete come testimone del proprio tempo, come quel baluardo che sul
territorio rimane ancora di salvezza, sguardo per un futuro pieno di speranza. Pensiamo,
ad esempio, al film “Alla luce del sole” di Roberto Faenza, in cui questo prete –
senza grandi pretese, ma semplicemente e paradossalmente con l’unica forza della Parola
di Dio nel cuore e sulle labbra - ha saputo avviare la rivoluzione che è la rivoluzione
per la legalità. D. - Quale, secondo lei, l’autore che maggiormente
è riuscito ad interpretare sullo schermo la bellezza e le difficoltà della vita sacerdotale? R.
– Credo che proprio il film “Il diario di un curato di campagna” sia uno dei tratti
meravigliosi e non perché è un dipinto irenico ed ingenuo della vita di un Paese,
anzi tutt’altro, ci permette di conoscere le vicende di difficoltà, di solitudine.
C’è, ad esempio - e per citare soltanto un elemento - il fatto che è malato di cancro
e che si può cibare solo di vino e pane e questo dice appunto la configurazione del
prete a Cristo. Questo mi sembra veramente un grande capolavoro della storia del cinema. Nella
seconda parte del volume, vengono condotte nove coinvolgenti interviste a altrettanti
registi che raccontano il loro incontro con la figura del prete: da Pupi Avati a Carlo
Verdone. Tra questi, Alessandro D’Alatri, regista, sceneggiatore
e attore. Nel 2002 gira un suo titolo di successo, “Casomai”, tratteggiando la figura
di don Livio e le problematiche relative al matrimonio. Perche questo tema? R.
– Ho sentito la necessità di raccontare qualcosa che andasse al di là delle banalità
che molto spesso si dicono. Da lì è nato “Casomai”, è nata quella storia. L’idea di
rappresentare quel sacerdote e quella cerimonia in quel modo nasceva dal fatto che
sempre più coppie - nonostante le difficoltà del matrimonio e della coppia siano sotto
gli occhi di tutti – si sposano col rito religioso. Da questo punto di vista, mi sono
sentito di capire perché fosse fatta questa ricerca. Perché, secondo me, nella nostra
società - nella quale ha ormai perso di valore qualsiasi rito di passaggio - uno dei
riti che è rimasto invece forte, proprio per i suoi valori e per la sua promessa,
è il matrimonio religioso. Spesso questo passaggio è considerato soltanto come un
fatto estetico, come un fatto rituale e basta. Non viene cioè valutato tutto l’impegno
e tutta la serietà che quell’impegno richiede. D. - Se dovesse
riprendere in mano una figura di sacerdote e scrivere oggi una storia, quale uscirebbe
dalla sua penna? R. – Sicuramente partirei da dove ero rimasto:
quel sacerdote era un sacerdote particolare, di cui si è parlato ampiamente, che piace
a tutti noi incontrare e ce ne sono parecchi di preti in questo modo. Oggi molto spesso
la figura del sacerdote - e le cronache di questi tempi ne parlano - ha messo in
dubbio una fiducia che invece era importante. Devo dire che, come al solito, per colpa
di qualche situazione, “si butta via tutto il cesto”. (Montaggio a cura
di Maria Brigini)