Al Festival di Cannes il film sui trappisti uccisi in Algeria
Uomini, demoni, dei fantasmi del passato, violenza e pietà, cinismo e commozione:
si muovono intorno ad alcuni temi centrali della vita i film che vedono il Festival
di Cannes avviarsi verso la sua conclusione. E sono finalmente titoli forti, che lasciano
il segno, opere necessarie, che lasciano intravvedere dietro la superficie di corpi
e spazi le profondità dello spirito umano. Ambientato nella Russia profonda, “My Joy”
di Sergei Loznitsa racconta la discesa agli inferi di un camionista perduto nella
campagna siberiana, vittima e testimone di innumerevoli brutalità, fino a trasformarsi
in una sorta di replicante omicida. Opera di pura osservazione e rigoroso studio di
caratteri, il film procede per accumulazione di scene che evocano il senso di un paesaggio
svuotato di umanità, in preda alla pura pulsione di sopravvivenza. L’efficacia di
Loznitsa ha due debiti evidenti: il primo, con la sua precedente attività di documentarista,
ci permette di capire il senso delle cose ad un primo sguardo; il secondo, con la
letteratura di Dostoievskji, ci rivela gli abissi dell’animo umano. Ispirato ad un
fatto realmente accaduto negli anni 90, il massacro di sette frati trappisti di un
monastero dal Maghreb ad opera dei fondamentalisti islamici, “Des hommes et des dieux”
di Xavier Beauvois, è un lavoro di straordinaria intensità emotiva, teso ad esplorare
il mistero del martirio. Fatto di scarni dialoghi, di ritratti di uomini e cose, di
gesti ora pietosi ora brutali, il film segue la vicenda non per denunciarne l’assurdo
e tragico epilogo, ma per svelare come la fede e l’amore per il prossimo possano sfidare
la morte. Attratto da sempre da quel limite invalicabile che è la fine dell’esperienza
umana, Beauvois non gioca con i sentimenti in nome della logica mercantile del cinema,
ma segue la sua ispirazione: crede in ciò che mostra e noi crediamo con lui. Sugli
stessi livelli di coinvolgimento emotivo si pone “Poetry” di Lee Chang Dong, cronaca
quotidiana della provincia coreana, spezzata da una vicenda di ordinaria violenza.
A seguito dei ripetuti stupri di un gruppo di compagni di scuola, una ragazzina si
suicida, buttandosi da un ponte. Il peso della colpa e della riparazione ricade sui
parenti dei colpevoli, che cinicamente tentano di uscirne con un risarcimento monetario
alla famiglia della vittima. Unica eccezione la nonna di uno dei ragazzi impegnata
con la poesia a raccogliere ciò che resta dei suoi pensieri prima che l’Alzheimer
glieli porti via. Articolato su più piani narrativi, fatto di una dolente bellezza
dei sentimenti, attraversato da interpretazioni di impalpabile profondità, il film
commuove fino alle lacrime e ci fa sentire forte il peso morale della scelta. Buon
film, anche se meno intenso dei precedenti, è l’unica opera italiana in concorso,
La nostra vita di Daniele Luchetti. Ambientato nella Roma degli operai edili che cercano
di trasformarsi in imprenditori, racconta la storia di uno di loro, colpito duramente
dalla perdita della moglie. Desideroso di prendersi una rivincita sulla vita, l’uomo
abbraccia il cinismo del profitto a scapito del rispetto degli altri, fino a ritrovare
se stesso e la forza della famiglia, un attimo prima di perdersi per sempre. Basato
su una precisa sceneggiatura e interpretato da un gruppo di bravi attori, il film
è un quadro esatto della società italiana di questi anni: dispersa, ferita, in cerca
di qualcosa in cui credere. (Da Cannes, Luciano Barisone)