Resa dei capi della protesta in Thailandia. Ucciso fotoreporter italiano
Coprifuoco a Bangkok dalle 20 di stasera, attacco in forze dell’esercito al presidio
dei manifestanti anti-governativi e un numero di vittime incerto, almeno sei. Queste
le ultime ore in Thailandia, dove negli scontri nella capitale è rimasto ucciso anche
un fotoreporter italiano, riconosciuto da testimoni sul posto. Si tratta di Fabio
Polenghi, di 45 anni. Un altro reporter canadese sarebbe rimasto ferito gravemente.
I principali capi della protesta hanno dichiarato la resa per evitare un bagno di
sangue. Ma molti oppositori non si danno per vinti: almeno una ventina di palazzi
a Bangkok sono stati incendiati; assalita anche la sede di una tv locale. Per le ultime
notizie da Bangkok, Salvatore Sabatino ha raggiunto telefonicamente il collega
Stefano Vecchia:
R. – Ci
sono ancora sacche di resistenza nel presidio centrale di Rajprasong
e sacche di resistenza che si sono localizzate in alcuni grandi magazzini che vengono
dati alle fiamme in queste ultime ore. In questo momento in varie zone della città
ci sono ancora forti scontri tra “camicie rosse” e governativi: lì ci sono incendi,
che sono poi quelli delle barricate e dei copertoni. Ma sono anche coinvolti gli edifici
circostanti alle zone controllate dai manifestanti e dove abitualmente si nascondevano
i cecchini. Io sono appena rientrato, facendo un lungo giro per le strade della città,
proprio perché è ormai difficile spostarsi. Ho visto numerosi roghi, banche ed uffici
pubblici incendiati. C’è molta gente per le strade e questo soprattutto nelle zone
più povere. Diciamo che la situazione a Bangkok è tutt’altro che sotto controllo in
questo momento. D. – Ora c’è il rischio che la protesta divampi
un po’ in tutto il Paese? R. – Sì, questo è un rischio che probabilmente
chi ha avviato la repressione, e quindi il governo, hanno messo in conto: così com’era
stato promesso, in qualche modo, l’incendio di Bangkok. Le “camicie rosse” probabilmente
non hanno la capacità né organizzativa né certamente tattica per organizzare una guerriglia,
una guerriglia urbana o ancor più una rivolta vera e propria. Possono in qualsiasi
momento ripiegare su questa tattica di combattimento strada per strada incendiando
quelli che per loro sono gli edifici simbolo del potere. Fabio
Polenghi, il fotoreporter italiano rimasto ucciso questa mattina a Bangkok, è il dodicesimo
professionista dell'informazione morto sul campo in questa prima metà del 2010, secondo
un elenco pubblicato sul sito di “Reporter senza frontiere”. Salvatore Sabatino
ne ha parlato con il vice-presidente dell’organizzazione, Domenico Affinito: R.
– Fabio Polenghi era un fotoreporter freelance che collaborava molto, come capita
ormai sempre più spesso ai fotoreporter italiani, con le testate estere ed era molto
proiettato verso la Francia, dove aveva fatto anche delle esposizioni alla Cité de
l’Industrie e all’Expò dei Libri. Collaborava con Marie Claire, con Vogue. Come molti
fotoreporter di guerra - soprattutto quelli dell’ultima generazione - non riusciva
a mantenersi facendo solo il fotoreporter e, quindi, mischiava quest’attività a quella
di moda. Sappiamo che era in Thailandia da tre mesi: quindi un tempo abbastanza lungo
per aver preso sicuramente contatti in modo approfondito e per conoscere bene la situazione.
D. – Molti analisti escludevano che si potesse arrivare ad
un vero e proprio bagno di sangue, nonostante il braccio di ferro tra i sostenitori
dell’ex premier e le “camicie rosse”. Ma in Thailandia c’erano state delle avvisaglie
su possibili pericoli per gli operatori dell’informazione? R.
– C’erano state già in passato, perché poco tempo fa, quando era già in corso questa
protesta dell’opposizione è morto un altro giornalista. Il 10 aprile scorso è morto
Hiroyuki Muramoto della Reuters. Va da sé che in una situazione di quel tipo
i rischi sono tantissimi, soprattutto se si fa la scelta – come pare avesse fatto
Fabio Polenghi – di stare dalla parte dei più deboli, di quelli che rischiano di più,
nel campo dei ribelli, che sono ovviamente meno armati dell’esercito, che sono asserragliati
in questa zona commerciale di Bangkok. D. – La morte di Fabio
Polenghi dimostra la pericolosità di questo lavoro per i tanti operatori che si trovano
a dover raccontare la cronaca dal mondo, soprattutto in situazioni difficili come
quella thailandese. Molto spesso operano anche senza tutele… R.
– Le tutele mancano soprattutto agli operatori freelance e quindi a giornalisti, fotografi
e fotoreporter. Noi per questo, ad esempio, forniamo una serie di strumenti - come
giubbotto antiproiettile o un’assicurazione a basso costo - proprio perché sono le
cose basilari che si debbono avere nel momento in cui si va in una zona di guerra.
In realtà, molto spesso, i freelance non riescono a permettersi questo tipo di tutele.