La Fao ha lanciato la campagna “One billion hungry”, "Un miliardo di affamati", per
sensibilizzare l’opinione pubblica alla lotta contro la fame e aumentare la pressione
sui governi affinché mantengano gli impegni presi in materia. Sono ormai oltre un
miliardo, infatti, le persone che soffrono la fame, una cifra che aumenta anziché
diminuire, come era stato auspicato negli Obiettivi del millennio, firmati nel settembre
2000 da tutti i Paesi appartenenti all’Onu. Per sottoscrivere la petizione lanciata
dalla Fao basterà collegarsi al sito www.fao.org. Lucas Dùran ha chiesto quale
sia l’obiettivo della campagna a Luca Alinòvi, economista della Fao:
R. – L’obiettivo
è di avere un milione di firme da portare - entro la fine dell’anno - a New York,
alle Nazioni Unite, per far capire che il numero di un miliardo di affamati è inaccettabile.
Non ci può andare bene perché sono ormai troppi anni che la fame aumenta. Sono troppi
anni che si dice quello che va fatto. Sono troppi anni che invece non si fa quello
che dovrebbe essere fatto. E’ ora che questa emergenza, forse, scenda di livello.
Smettiamo di parlare con i politici. Dobbiamo essere noi cittadini che diciamo ai
nostri politici: “Basta, questa cosa è inaccettabile!”.
D.
– Come giudica l’impegno economico dei governi per combattere la fame?
R.
– Durante il G8 all’Aquila, tanto celebrato, è stata fatta una grande cosa: ci si
è impegnati a raccogliere 22 miliardi di dollari nei prossimi tre anni. Ma siamo ancora
molto lontani. Eppure in 48 ore, all’idea che la Grecia potesse fallire, ne abbiamo
mobilizzati mille di miliardi. Ben facendo, proteggendo la nostra Europa, ma senza
alcuna difficoltà. Ora, mille miliardi vogliono dire mille dollari per affamato: questo
vuol dire che ciascun affamato del mondo avrebbe i soldi sufficienti per pagarsi più
di un anno di cibo.
D. – Impegni non mantenuti a
fronte di obiettivi di per sé realizzabili. Perché?
R.
– Sembra che ci si tenga lontani, quasi come se alla fine questo non fosse un problema.
Mi è capitato più di una volta di fare questa osservazione. Io ho l’impressione che,
alle volte, giochiamo con il fuoco senza rendercene conto! Non si può avere intorno
a sé un miliardo di affamati. Non si può avere un affamato ogni sei persone. E’ qualcosa
che va talmente al di là dell’accettabile, che dovrebbe preoccuparci profondamente…
Eppure, drammaticamente, non se ne preoccupano i Paesi ricchi e troppe volte neanche
gli stessi Paesi poveri. Sembra che sia una cosa per la quale non si possa far nulla.
Pochi cambiamenti possono far cambiare il mondo: tornare ad investire sull’agricoltura,
rimettere l’agricoltura al centro dei nostri obiettivi, garantire che i più poveri
del mondo - il cui 75 per cento stanno nel mondo agricolo - tornino ad essere al centro
delle politiche di sviluppo.
D. – Quanto può contare
una maggiore pressione da parte dell’opinione pubblica?
R.
– Conta tantissimo e, alle volte, forse noi commettiamo proprio l’errore di darle
poca importanza. Noi abbiamo una brutta abitudine: non ci facciamo pubblicità, non
andiamo a raccontare quello che facciamo, non raccontiamo quello che vediamo nella
nostra vita quotidiana. Ci sembra sempre di non doverlo fare, di essere accorti. In
questo momento si sono un po’ "rotte le acque" ed è venuto fuori quel sentimento che
cammina nei nostri corridoi ed è quello che ci fa dire: “Non si può stare così! Dovete
aiutarci a fare pressione su chi non permette che questo accada!" Se i nostri Stati
non ci dicono o non ci spingono a fare determinate cose, noi non abbiamo i mezzi per
farlo. Per cui l’opinione pubblica è fondamentale!