Festival di Cannes: tra i candidati alla Palma d'Oro Mike Leigh e il regista ciadiano
Haroun
Al quarto giorno di Festival di Cannes, si sentiva la mancanza di quella forte emozione
che segna l’emergere di un grande film, in grado di aspirare alla Palma d’Oro. Una
tale mancanza incomincia ad essere colmata da due opere di grande profondità etica.
Parliamo di “Another Day” di Mike Leigh e “Un homme qui crie” di Mahamat-Saleh Haroun.
Nel film del regista inglese le quattro stagioni di un anno scivolano sui corpi e
sui sentimenti di un piccolo gruppo di esseri umani. Il nucleo centrale è una coppia
felice ai confini della terza età, lui geologo, lei psicologa, con un figlio avvocato,
gentile e brillante. Il mondo potrebbe essere quello, la quieta consapevolezza di
esistere. Invece intorno a loro si agitano le ombre dell’infelicità, quelle di gente
in preda alla solitudine: un’amica, zitella nevrotica, un amico, bulimico e alcolista,
un parente, ammutolito dal lutto. Fatto di dialoghi precisi e puntuali, segnato da
memorabili interpretazioni attoriali, splendidamente fotografato, il film ci ricorda
con implacabile tenerezza che la nostra felicità vive a fianco del dolore degli altri.
È quanto fa anche il regista del Ciad, con echi più profondamente tragici. Qui siamo
a Djamena, la capitale del Paese sahariano, in piena guerra civile. Sullo sfondo di
un paesaggio socialmente instabile, un uomo è completamente assorbito da suo dovere:
ex-campione di nuoto, gestisce la piscina di un grande albergo insieme al figlio ventenne.
Anche qui la vita potrebbe essere questa: lavorare, amare, rispettarsi. Invece il
mondo sconvolge l’armonia: la padrona mette da parte il padre per fare posto al figlio;
il padre è pressato dai fanatici perché dia il suo contributo alla guerra; il padre
consegna il figlio alla coscrizione militare. Il resto è la prevedibile conseguenza
della colpa: rimorso, dolore, inutile tentativo di rimediare. Il film si chiude su
un’immagine di pietà e la frase di un poeta ci impone di distogliere gli occhi dallo
spettacolo, perché “un uomo che grida non è un orso che balla”. Mentre il fuori concorso
segue in chiave minore l’andamento del Concorso (con Woody Allen e Oliver Stone che
deludono alquanto), di grande livello continua a rivelarsi il programma del Certain
Regard, dove un film, “Aurora” di Christi Puiu, si segnala come una vera e propria
incursione nel tessuto di una nazione. Già autore di “La morte del signor Lazarescu”,
il regista rumeno interpreta egli stesso un personaggio torvo, intento a regolare
i suoi conti col mondo, in maniera metodica e impietosa. Minuziosa ricostruzione di
una giornata di ordinaria violenza, il film ci consegna l’ossessione dell’ordine in
una società disordinata e contemporaneamente la tragedia di un uomo ridicolo. Sono
tre ore di suspence del reale, in cui ogni atto è l’attesa terribile del successivo.
In primo piano il protagonista, una maschera, da cui traspare l’odio della disperazione
ma anche la freddezza di un sistema razionale, logico-punitivo, che nel caso individuale
porta all’omicidio e in quello collettivo al genocidio. (Da Cannes, Luciano Barisone)