2010-04-20 14:54:38

Il dramma dimenticato dei bambini soldato in Africa: intervista con padre Zanotelli


“Bambini soldato: l’Africa dimenticata”: se ne parlerà stasera a Roma in un incontro promosso dall’Assessorato alle politiche culturali e della comunicazione del Comune, dalla rivista Adista e dalle Edizioni Paoline. Interverrà, tra gli altri, il comboniano padre Alex Zanotelli. Nel corso del dibattito sarà presentato anche il volume dal titolo “Uccidi o sarai ucciso”, edito dalla San Paolo, che raccoglie le testimonianze di ragazzi fuggiti dai ranghi dell’Esercito di Liberazione del Signore in Uganda del Nord. Ma quanto è ancora diffuso il fenomeno dei bambini-soldato? Al microfono di Adriana Masotti risponde padre Zanotelli.RealAudioMP3



R. – Ha dimensioni ancora molto forti, per quanto riguarda il Nord Uganda, ma questo fenomeno è molto presente anche in Congo, nel Kivu, in tutta una serie di situazioni dove c’è guerriglia. E’ un fenomeno non solo africano, ma è molto accentuato in Africa.

 

D. – Il libro “Uccidi o sarai ucciso” dice molto bene la tragedia, la crudeltà cui sono ridotti questi bambini, coinvolti in scelte comunque terribili. E si sa che i bambini, più facilmente che un adulto, uccidono sotto determinate pressioni psicologiche o fisiche ...

 

R. – Esatto, è questa la cosa più tragica. I "signori della guerra" hanno capito che se vogliono avere dei soldati obbedienti devono cominciare a prenderli da piccolissimi, anche a 7, 8, 9 anni, e far fare loro delle cose terribili, allucinanti, tipo uccidere dei fanciulli come loro, far mangiare le loro carni – perché si tratta anche di questo – proprio per toglier loro ogni umanità. Così diventano semplicemente dei robot, capaci di qualsiasi brutalità, senza sentirsi minimamente in colpa né altro, perché per loro è l’unica cosa che possono fare.

 

D. – Capita che un ragazzino di questi riesca a fuggire, ma ormai non è sufficiente questa fuga per ritornare alla normalità. Che cosa si può fare, che cosa si sta facendo, là dove si può?

 

R. – E’ questo, forse, uno dei problemi più grossi, proprio in chiave psicologica. Si sta lavorando su questo, molto attivamente, soprattutto nel Nord Uganda, ma anche in tante altre parti. Bisogna seguire tutto un processo in cui far recuperare a questi ragazzini la propria umanità, la propria dignità. E’ il processo che, in chiave biblica, chiamiamo della "riconciliazione", che poi diventa riconciliazione di intere comunità. Siamo solo agli inizi, però si sono visti anche frutti molto belli. Sono processi in cui siamo tutti coinvolti e la Chiesa stessa sta imparando.

 

D. – La Chiesa, i missionari, spesso sono in prima linea, ma c’è anche un problema – lei sottolinea – teologico: come parlare di Dio in questi contesti...

 

R. – La domanda fondamentale è: “Come dire la parola ‘Dio’ davanti a tali brutalità umane?”. Qui la domanda: “Dio, dove sei? Perché non intervieni?”, diventa profondamente teologica.

 

D. – Anche se non nuova, perché anche ai tempi dei lager, del nazismo ...

 

R. – Esatto. Queste situazioni, è chiaro, sono scelte nostre. Il problema, allora, è: “Ma Dio, come mai non si fa vivo?”. A me viene spontaneo riferirmi a quella grande donna che era Etty Hillesum, ebrea, cremata nei campi di concentramento, quando nella preghiera della domenica mattina diceva: “Adesso capisco che non posso puntare il dito su di te: sei tu che lo punti su di me; e capisco che non sei tu a dover consolare me, ma sono io a dover consolare te”.








All the contents on this site are copyrighted ©.