Il dramma dimenticato dei bambini soldato in Africa: intervista con padre Zanotelli
“Bambini soldato: l’Africa dimenticata”: se ne parlerà stasera a Roma in un incontro
promosso dall’Assessorato alle politiche culturali e della comunicazione del Comune,
dalla rivista Adista e dalle Edizioni Paoline. Interverrà, tra gli altri, il comboniano
padre Alex Zanotelli. Nel corso del dibattito sarà presentato anche il volume
dal titolo “Uccidi o sarai ucciso”, edito dalla San Paolo, che raccoglie le testimonianze
di ragazzi fuggiti dai ranghi dell’Esercito di Liberazione del Signore in Uganda del
Nord. Ma quanto è ancora diffuso il fenomeno dei bambini-soldato? Al microfono di
Adriana Masotti risponde padre Zanotelli.
R.
– Ha dimensioni ancora molto forti, per quanto riguarda il Nord Uganda, ma questo
fenomeno è molto presente anche in Congo, nel Kivu, in tutta una serie di situazioni
dove c’è guerriglia. E’ un fenomeno non solo africano, ma è molto accentuato in Africa.
D.
– Il libro “Uccidi o sarai ucciso” dice molto bene la tragedia, la crudeltà cui sono
ridotti questi bambini, coinvolti in scelte comunque terribili. E si sa che i bambini,
più facilmente che un adulto, uccidono sotto determinate pressioni psicologiche o
fisiche ...
R. – Esatto, è questa la cosa più tragica.
I "signori della guerra" hanno capito che se vogliono avere dei soldati obbedienti
devono cominciare a prenderli da piccolissimi, anche a 7, 8, 9 anni, e far fare loro
delle cose terribili, allucinanti, tipo uccidere dei fanciulli come loro, far mangiare
le loro carni – perché si tratta anche di questo – proprio per toglier loro ogni umanità.
Così diventano semplicemente dei robot, capaci di qualsiasi brutalità, senza sentirsi
minimamente in colpa né altro, perché per loro è l’unica cosa che possono fare.
D.
– Capita che un ragazzino di questi riesca a fuggire, ma ormai non è sufficiente questa
fuga per ritornare alla normalità. Che cosa si può fare, che cosa si sta facendo,
là dove si può?
R. – E’ questo, forse, uno dei problemi
più grossi, proprio in chiave psicologica. Si sta lavorando su questo, molto attivamente,
soprattutto nel Nord Uganda, ma anche in tante altre parti. Bisogna seguire tutto
un processo in cui far recuperare a questi ragazzini la propria umanità, la propria
dignità. E’ il processo che, in chiave biblica, chiamiamo della "riconciliazione",
che poi diventa riconciliazione di intere comunità. Siamo solo agli inizi, però si
sono visti anche frutti molto belli. Sono processi in cui siamo tutti coinvolti e
la Chiesa stessa sta imparando.
D. – La Chiesa, i missionari,
spesso sono in prima linea, ma c’è anche un problema – lei sottolinea – teologico:
come parlare di Dio in questi contesti...
R. – La domanda
fondamentale è: “Come dire la parola ‘Dio’ davanti a tali brutalità umane?”. Qui la
domanda: “Dio, dove sei? Perché non intervieni?”, diventa profondamente teologica.
D.
– Anche se non nuova, perché anche ai tempi dei lager, del nazismo ...
R.
– Esatto. Queste situazioni, è chiaro, sono scelte nostre. Il problema, allora, è:
“Ma Dio, come mai non si fa vivo?”. A me viene spontaneo riferirmi a quella grande
donna che era Etty Hillesum, ebrea, cremata nei campi di concentramento, quando
nella preghiera della domenica mattina diceva: “Adesso capisco che non posso puntare
il dito su di te: sei tu che lo punti su di me; e capisco che non sei tu a dover consolare
me, ma sono io a dover consolare te”.