Anno Sacerdotale: la testimonianza del rettore della Cappella della Sapienza
Per la nostra rubrica sull’Anno Sacerdotale, oggi parliamo dei religiosi impegnati
nel campo della formazione giovanile. Andiamo quindi a Roma, precisamente nella Cappella
universitaria dell’ateneo “La Sapienza”. Isabella Piro ha intervistato il rettore
della Cappella, padre Vicenzo D’Adamo, gesuita, e gli ha chiesto cosa significhi,
per un sacerdote, stare accanto ai giovani studenti universitari:
R. – La
prima cosa è capire il loro mondo, il loro vissuto, poi accoglierlo e lasciarsi portare
da questo vissuto e dalle loro ricerche, dalle loro intuizioni, dalla loro creatività,
poiché il momento universitario è un momento espressivo, creativo e non passivo per
i nostri ragazzi. Quindi, condividere con loro la manifestazione della loro personalità.
D.
– Quali problematiche si riscontrano maggiormente, al giorno d’oggi, tra i giovani?
R.
– Assumere e maturare quella sicurezza in rapporto alla propria identità, al proprio
progetto di vita e alle proprie prospettive, per cui una presenza di mediazione, di
ascolto discreto, ma fedele – dal punto di vista anche sacerdotale – può aiutare i
ragazzi a compiere un discernimento ed un processo di maggior identificazione personale.
D. – Lei, personalmente, cosa ha imparato dal rapporto
con gli studenti in questi anni di guida alla cappella universitaria?
R.
– Ho imparato soprattutto a vivere con maggior pienezza e fedeltà il mio sacerdozio,
poiché ciò che mi chiedono i ragazzi è di essere una persona che integralmente si
dedica al Signore e al Vangelo e che quindi non scimmiotta il loro linguaggio e il
loro comportamento ma che, essendo vicino, disponibile e attento a condividere i loro
percorsi, è fedele ed è integro nella propria esperienza di comunione con Dio e con
la Chiesa.
D. – Com’è nata in lei la vocazione?
R.
– La vocazione è nata in un contesto degli anni Settanta, nell’ambiente bolognese,
dove ho incontrato i gesuiti mentre studiavo, lavoravo e m’interessavo alle attività
politiche sindacali. E lì ho scoperto un modo di essere sacerdote profondamente radicato
nella consapevolezza storica del momento vissuto, ma con grande fedeltà alla comunione
con la Chiesa e con una grande serietà di preparazione. La congiunzione di questi
elementi ha scatenato in me un fascino ed una passione che poi, con il tempo, ho capito
essere la mia vocazione e quindi l’ho abbracciata e ne sono veramente felice. È il
dono più grande che la vita e che Dio mi ha fatto: cioè quello d’incontrare un sacerdozio
così vissuto in un contesto come quello degli anni Settanta.
D.
– Quindi, se dovesse rifare la stessa scelta, la rifarebbe?
R.
– Senza alcun dubbio, perché è la dimensione più bella che conosco della mia esistenza.
Talvolta i ragazzi mi provocano e mi dicono: “Ma se tu conoscessi una realtà più importante
e più bella di questa, la sceglieresti?”. La sceglierei certamente, sono disposto
ad aprirmi a delle novità che Dio vorrà offrirmi, ma in questi anni– ormai sono quasi
25 – ho verificato che questo è il dono più bello che mi corrisponde pienamente, anche
perché mi apre quotidianamente una comprensione ed una conoscenza delle profondità
dell’animo umano nelle quali il sacerdote è chiamato ad entrare, con la delicatezza
del mistero di Dio. E questa profondità di conoscenza non l’ho attinta da altre esperienze.
D.
– Si parla spesso di crisi delle vocazioni; come invogliare i giovani ad intraprendere
la vita sacerdotale?
R. – Ce lo chiediamo quotidianamente
anche noi. Ci sono poi delle fioriture improvvise di dedizione al Signore che ci meravigliano.
Dopo la mancata visita del Santo Padre a La Sapienza – che per noi è stato un momento
doloroso e difficile - da quella mancata visita ad oggi – e questa notizia la do con
molta delicatezza e discrezione, poiché non è un elemento propagandistico, ma è semplicemente
un dato veritiero – sono fiorite cinque vocazioni, e due di queste proprio nella facoltà
di Fisica, dove c’è stata la maggiore opposizione politica e pubblica alla visita
del Santo Padre. Credo che i percorsi che il Signore utilizza nel suscitare vocazioni
sono percorsi che talvolta ci sfuggono, quindi noi stessi siamo chiamati a ricondurci
ad una maggiore e seria attenzione al modo di agire di Dio nella storia, anche per
servire quel discernimento, che molti compiono nell’intimo del proprio animo, di offerta
al Signore e anche di assunzione di una vocazione impegnativa come quella del sacerdozio.
D.
– Qual è, quindi, il suo auspicio per questo Anno Sacerdotale in corso?
R.
– Il mio auspicio è che ci riconduciamo sempre più all’amore di Dio, ad abbracciare
il suo mistero e, senza fingere, ci collochiamo nel cuore delle situazioni umane delle
persone e della storia nella quale viviamo, facendo proprio quest’opera di connessione,
che per me è un termine molto semplice, che i ragazzi usano, per indicare la mediazione
sacerdotale. Il sacerdote è un connettore tra l’esperienza umana nella sua autenticità
e il mistero più alto di Dio.