Messa in Coena Domini. Il Papa: l'annuncio degli Apostoli non potrà mai cessare nella
storia
"La Chiesa nasce dalla preghiera di Gesù: garanzia che l’annuncio degli Apostoli non
potrà mai cessare nella storia". Così Benedetto XVI questo pomeriggio nella Basilica
di san Giovanni in Laterano durante la Messa in Coena Domini, inizio del Triduo Pasquale.
"La preghiera di Gesù – ha spiegato il Papa – è anche un esame di coscienza per la
comunità ecclesiale, chiamata a chiedersi quanto viva nella comunione". Nel corso
della celebrazione il Santo Padre ha lavato i piedi a dodici sacerdoti, rinnovando
il gesto che Cristo compì verso i suoi discepoli, mentre al momento dell’offertorio
ha ricevuto la somma raccolta dai fedeli che sarà devoluta per la ricostruzione del
seminario di Port au Prince in Haiti. Il servizio è di Paolo Ondarza:
Ecco il testo integrale dell’omelia di Benedetto XVI:
Cari fratelli e sorelle,
In
modo più ampio degli altri tre evangelisti, san Giovanni, nella maniera a lui propria,
ci riferisce nel suo Vangelo circa i discorsi d’addio di Gesù, che appaiono quasi
come il suo testamento e come sintesi del nucleo essenziale del suo messaggio. All’inizio
di tali discorsi c’è la lavanda dei piedi, in cui il servizio redentore di Gesù per
l’umanità bisognosa di purificazione è riassunto in questo gesto di umiltà. Alla fine,
le parole di Gesù si trasformano in preghiera, nella sua Preghiera sacerdotale, il
cui sfondo gli esegeti hanno individuato nel rituale della festa giudaica dell’espiazione.
Ciò che era il senso di quella festa e dei suoi riti – la purificazione del mondo,
la sua riconciliazione con Dio – avviene nell’atto del pregare di Gesù, un pregare
che, al tempo stesso, anticipa la Passione, la trasforma in preghiera. Così nella
Preghiera sacerdotale si rende visibile in una maniera del tutto particolare anche
il mistero permanente del Giovedì Santo: il nuovo sacerdozio di Gesù Cristo e la sua
continuazione nella consacrazione degli Apostoli, nel coinvolgimento dei discepoli
nel sacerdozio del Signore. Da questo testo inesauribile, in quest’ora vorrei scegliere
tre parole di Gesù, che possono introdurci più profondamente nel mistero del Giovedì
Santo.
Vi è innanzitutto la frase: “Questa è la vita eterna: che conoscano
te, l’unico vero Dio e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (Gv 17, 3). Ogni essere
umano vuole vivere. Desidera una vita vera, piena, una vita che valga la pena, che
sia una gioia. Con l’anelito alla vita è, al contempo, collegata la resistenza contro
la morte, che tuttavia è ineluttabile. Quando Gesù parla della vita eterna, Egli intende
la vita autentica, vera, che merita di essere vissuta. Non intende semplicemente la
vita che viene dopo la morte. Egli intende il modo autentico della vita – una vita
che è pienamente vita e per questo è sottratta alla morte, ma che può di fatto iniziare
già in questo mondo, anzi, deve iniziare in esso: solo se impariamo già ora a vivere
in modo autentico, se impariamo quella vita che la morte non può togliere, la promessa
dell’eternità ha senso. Ma come si realizza questo? Che cosa è mai questa vita veramente
eterna, alla quale la morte non può nuocere? La risposta di Gesù, l’abbiamo sentita:
Questa è la vita vera, che conoscano te – Dio – e il tuo Inviato, Gesù Cristo. Con
nostra sorpresa, lì ci viene detto che vita è conoscenza. Ciò significa anzitutto:
vita è relazione. Nessuno ha la vita da se stesso e solamente per se stesso. Noi l’abbiamo
dall’altro, nella relazione con l’altro. Se è una relazione nella verità e nell’amore,
un dare e ricevere, essa dà pienezza alla vita, la rende bella. Ma proprio per questo,
la distruzione della relazione ad opera della morte può essere particolarmente dolorosa,
può mettere in questione la vita stessa. Solo la relazione con Colui, che è Egli stesso
la Vita, può sostenere anche la mia vita al di là delle acque della morte, può condurmi
vivo attraverso di esse. Già nella filosofia greca esisteva l’idea che l’uomo può
trovare una vita eterna se si attacca a ciò che è indistruttibile – alla verità che
è eterna. Dovrebbe, per così dire, riempirsi di verità per portare in sé la sostanza
dell’eternità. Ma solo se la verità è Persona, essa può portarmi attraverso la notte
della morte. Noi ci aggrappiamo a Dio – a Gesù Cristo, il Risorto. E siamo così portati
da Colui che è la Vita stessa. In questa relazione noi viviamo anche attraversando
la morte, perché non ci abbandona Colui che è la Vita stessa.
Ma ritorniamo
alla parola di Gesù: Questa è la vita eterna: che conoscano te e il tuo Inviato. La
conoscenza di Dio diventa vita eterna. Ovviamente qui con “conoscenza” s’intende qualcosa
di più di un sapere esteriore, come sappiamo, per esempio, quando è morto un personaggio
famoso e quando fu fatta un’invenzione. Conoscere nel senso della Sacra Scrittura
è un diventare interiormente una cosa sola con l’altro. Conoscere Dio, conoscere Cristo
significa sempre anche amarLo, diventare in qualche modo una cosa sola con Lui in
virtù del conoscere e dell’amare. La nostra vita diventa quindi una vita autentica,
vera e così anche eterna, se conosciamo Colui che è la fonte di ogni essere e di ogni
vita. Così la parola di Gesù diventa un invito per noi: diventiamo amici di Gesù,
cerchiamo di conoscerLo sempre di più! Viviamo in dialogo con Lui! Impariamo da Lui
la vita retta, diventiamo suoi testimoni! Allora diventiamo persone che amano e allora
agiamo in modo giusto. Allora viviamo veramente.
Due volte nel corso della
Preghiera sacerdotale Gesù parla della rivelazione del nome di Dio. “Ho manifestato
il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo” (v. 6). “Io ho fatto conoscere
loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l’amore con il quale mi hai amato sia
in essi e io in loro” (v. 26). Il Signore allude qui alla scena presso il roveto ardente,
dal quale Dio, alla domanda di Mosè, aveva rivelato il suo nome. Gesù vuole quindi
dire che Egli porta a termine ciò che era iniziato presso il roveto ardente; che in
Lui Dio, che si era fatto conoscere a Mosè, ora si rivela pienamente. E che con ciò
Egli compie la riconciliazione; che l’amore con cui Dio ama suo Figlio nel mistero
della Trinità, coinvolge ora gli uomini in questa circolazione divina dell’amore.
Ma che cosa significa più precisamente che la rivelazione dal roveto ardente viene
portata a termine, raggiunge pienamente la sua meta? L’essenziale dell’avvenimento
al monte Oreb non era stata la parola misteriosa, il “nome”, che Dio aveva consegnato
a Mosè, per così dire, come segno di riconoscimento. Comunicare il nome significa
entrare in relazione con l’altro. La rivelazione del nome divino significa dunque
che Dio, che è infinito e sussiste in se stesso, entra nell’intreccio di relazioni
degli uomini; che Egli, per così dire, esce da se stesso e diventa uno di noi, uno
che è presente in mezzo a noi e per noi. Per questo in Israele sotto il nome di Dio
non si è visto solo un termine avvolto di mistero, ma il fatto dell’essere-con-noi
di Dio. Il Tempio, secondo la Sacra Scrittura, è il luogo in cui abita il nome di
Dio. Dio non è racchiuso in alcuno spazio terreno; Egli rimane infinitamente al di
sopra del mondo. Ma nel Tempio è presente per noi come Colui che può essere chiamato
– come Colui che vuol essere con noi. Questo essere di Dio con il suo popolo si compie
nell’incarnazione del Figlio. In essa si completa realmente ciò che aveva avuto inizio
presso il roveto ardente: Dio quale Uomo può essere da noi chiamato e ci è vicino.
Egli è uno di noi, e tuttavia è il Dio eterno ed infinito. Il suo amore esce, per
così dire, da se stesso ed entra in noi. Il mistero eucaristico, la presenza del Signore
sotto le specie del pane e del vino è la massima e più alta condensazione di questo
nuovo essere-con-noi di Dio. “Veramente tu sei un Dio nascosto, Dio d’Israele”, ha
pregato il profeta Isaia (45,15). Ciò rimane sempre vero. Ma al tempo stesso possiamo
dire: veramente tu sei un Dio vicino, tu sei un Dio-con-noi. Tu ci hai rivelato il
tuo mistero e ci hai mostrato il tuo volto. Tu hai rivelato te stesso e ti sei dato
nelle nostre mani… In quest’ora deve invaderci la gioia e la gratitudine perché Egli
si è mostrato; perché Egli, l’Infinito e l’Inafferrabile per la nostra ragione, è
il Dio vicino che ama, il Dio che noi possiamo conoscere ed amare.
La richiesta
più nota della Preghiera sacerdotale è la richiesta dell’unità per i discepoli, per
quelli di allora e quelli futuri: “Non prego solo per questi – la comunità dei discepoli
radunata nel Cenacolo – ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro
parola: perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano
anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato.” (v. 20s; cfr vv. 11
e 13). Che cosa chiede precisamente qui il Signore? Innanzitutto, Egli prega per i
discepoli di quel tempo e di tutti i tempi futuri. Guarda in avanti verso l’ampiezza
della storia futura. Vede i pericoli di essa e raccomanda questa comunità al cuore
del Padre. Egli chiede al Padre la Chiesa e la sua unità. È stato detto che nel Vangelo
di Giovanni la Chiesa non compare. Qui, invece, essa appare nelle sue caratteristiche
essenziali: come la comunità dei discepoli che, mediante la parola apostolica, credono
in Gesù Cristo e così diventano una cosa sola. Gesù implora la Chiesa come una ed
apostolica. Così questa preghiera è propriamente un atto fondante della Chiesa. Il
Signore chiede la Chiesa al Padre. Essa nasce dalla preghiera di Gesù e mediante l’annuncio
degli Apostoli, che fanno conoscere il nome di Dio e introducono gli uomini nella
comunione di amore con Dio. Gesù chiede dunque che l’annuncio dei discepoli prosegua
lungo i tempi; che tale annuncio raccolga uomini i quali, in base ad esso, riconoscono
Dio e il suo Inviato, il Figlio Gesù Cristo. Egli prega affinché gli uomini siano
condotti alla fede e, mediante la fede, all’amore. Egli chiede al Padre che questi
credenti “siano in noi” (v. 21); che vivano, cioè, nell’interiore comunione con Dio
e con Gesù Cristo e che da questo essere interiormente nella comunione con Dio si
crei l’unità visibile. Due volte il Signore dice che questa unità dovrebbe far sì
che il mondo creda alla missione di Gesù. Deve quindi essere un’unità che si possa
vedere – un’unità che vada tanto al di là di ciò che solitamente è possibile tra gli
uomini, da diventare un segno per il mondo ed accreditare la missione di Gesù Cristo.
La preghiera di Gesù ci dà la garanzia che l’annuncio degli Apostoli non potrà mai
cessare nella storia; che susciterà sempre la fede e raccoglierà uomini nell’unità
– in un’unità che diventa testimonianza per la missione di Gesù Cristo. Ma questa
preghiera è sempre anche un esame di coscienza per noi. In quest’ora il Signore ci
chiede: vivi tu, mediante la fede, nella comunione con me e così nella comunione con
Dio? O non vivi forse piuttosto per te stesso, allontanandoti così dalla fede? E non
sei forse con ciò colpevole della divisione che oscura la mia missione nel mondo;
che preclude agli uomini l’accesso all’amore di Dio? È stata una componente della
Passione storica di Gesù e rimane una parte di quella sua Passione che si prolunga
nella storia, l’aver Egli visto e il vedere tutto ciò che minaccia, distrugge l’unità.
Quando noi meditiamo sulla Passione del Signore, dobbiamo anche percepire il dolore
di Gesù per il fatto che siamo in contrasto con la sua preghiera; che facciamo resistenza
al suo amore; che ci opponiamo all’unità, che deve essere per il mondo testimonianza
della sua missione.
In quest’ora, in cui il Signore nella Santissima Eucaristia
dona se stesso – il suo corpo e il suo sangue –, si dà nelle nostre mani e nei nostri
cuori, vogliamo lasciarci toccare dalla sua preghiera. Vogliamo entrare noi stessi
nella sua preghiera, e così lo imploriamo: Sì, Signore, donaci la fede in te, che
sei una cosa sola con il Padre nello Spirito Santo. Donaci di vivere nel tuo amore
e così diventare una cosa sola come tu sei una cosa sola con il Padre, perché il mondo
creda. Amen.