Il “Giorno di monsignor Oscar Arnulfo Romero y Galdamez”: così sarà ricordato da quest’anno
in poi il 24 marzo. Lo ha istituito, in memoria del vescovo salvadoregno ucciso proprio
il 24 marzo di 30 anni fa, nel 1980, per aver denunciato apertamente ingiustizie e
degrado sociale, l’assemblea legislativa di El Salvador. Già da 18 anni, tuttavia,
il Movimento Giovanile delle Pontificie Opere Missionarie propone in questa data dell'anno
una giornata di preghiera e digiuni in memoria dei missionari martiri. Nel 2009, secondo
i dati raccolti dall’agenzia Fides, sono state 37 le persone uccise in missione; si
tratta di 30 sacerdoti, 2 religiose, 2 seminaristi e 3 volontari laici. Quasi il doppio
rispetto al 2008 e purtroppo il numero è più alto registrato negli ultimi dieci anni.
In ricordo dei missionari martiri quest’anno il tema è “La mia vita appartiene a voi”;
ne parla, al microfono di Tiziana Campisi, don Gianni Cesena, direttore
del Movimento Giovanile delle Pontificie Opere Missionarie:
R.
– La Giornata è stata istituita nel ‘94 dal Movimento Giovanile Missionario, che ha
voluto così raccogliere le eredità ideali di Romero e nello stesso tempo si è aperta
la coscienza verso tutti coloro che a partire dalla missione e nelle missioni sono
martiri. Questo per i giovani ha un grande significato ed è una grande testimonianza
oltreché una grossa lezione che il mondo giovanile cattolico dà a tutta la Chiesa,
agli adulti, ai sacerdoti, per ricordare il prezzo della fede che da tante parti viene
pagato fino al sacrificio della vita.
D. – La morte
di mons. Romero ha portato davvero tanti frutti, proprio come il chicco di grano,
che morendo fruttifica. Quali sono stati in particolare i più bei frutti della morte
di Romero?
R. – Il primo frutto è paradossale ed è stato
aprire bene gli occhi sul fatto stesso che i martiri ci sono e ci sono anche oggi.
Questo spinge molti altri a vivere da “martiri”, cioè ad essere testimoni. C’è stata
una spinta – soprattutto per i giovani, ma anche per molti laici e certamente per
i missionari di lungo corso – a radicare sempre più la testimonianza nella forza di
una coerenza profonda. E, proprio pensando a Romero, ucciso sull’altare, una forza
e coerenza che nasce in ginocchio davanti all’Eucaristia, che nasce nell’ascolto della
Parola, che nasce da una profonda spiritualità. In pratica i martiri ci dicono lo
scarto forte che esiste rispetto alle ingiustizie del mondo.
D.
– Quali tratti di mons. Romero sono ancora indelebili?
R.
– Io credo che di Romero sono indelebili due cose: la prima è la sua capacità di attualizzare
la Parola di Dio. Le sue omelie, che a noi, al nostro gusto, apparirebbero interminabili,
erano sempre un ponte tra la Parola di Dio e la realtà. E quindi mi pare che anche
se questo avveniva nel momento liturgico, era però un suo stile di vita. Una parola
così incarnata, che era in grado di leggere, di discernere le situazioni concrete,
che si faceva di nuovo carne; una nuova incarnazione. Insieme Romero era un vescovo
che, quando ha detto “se mi uccideranno risorgerò nella mia gente”, non aveva in mente
una folla indistinta, ma aveva in mente tante persone, tanti collaboratori, tanti
sacerdoti, aveva in mente i poveri.
D. – A chi parla
e cosa dice oggi mons. Romero?
R. – Penso che Romero
oggi parli a tutti i cristiani, in particolare mi piacerebbe che parlasse a due categorie
di persone: ai suoi confratelli vescovi, come esempio di pastore, e quindi anche a
tutti i sacerdoti. Era un pastore, ed è un pastore eloquente per i nostri tempi. Penso
che Romero, nonostante siano trascorsi 30 anni dalla sua morte parli oggi soprattutto
ai giovani.