Mons. Piacenza sull'identità del sacerdote in un mondo "sordo" allo spirito: serve
un tuffo totale nella radicalità evangelica
L’identità del sacerdozio è stata al centro del Convegno teologico che si è concluso
ieri pomeriggio all’Università Lateranense. In due giorni di interventi, cardinali,
presuli ed esperti si sono alternati al microfono per mettere in luce la sacralità
della vocazione sacerdotale, il suo ruolo nella cultura contemporanea, i profili missionari,
pastorali e giuridici, con un ampio spazio dedicato all’aspetto del celibato ecclesiastico.
A concludere i lavori è stato l'arcivescovo Mauro Piacenza, segretario della
Congregazione per il Clero. Alessandro De Carolis gli ha chiesto di spiegare
i punti salienti trattati durante il Convegno:
R. – E' stata
focalizzata l’identità del sacerdote e sulla modanatura dell’identità sono state coniugate
altre questioni annesse e connesse con l’identità: soprattutto il fatto che non ci
sia contrasto in un mondo molto caotico, dove i sacerdoti sono meno in quanto a numero
e le esigenze sono sempre più alte. C’è sempre il rischio di cadere in un certo attivismo
e di dimenticare perciò l’essenzialità e la propria identità. C’è stato quindi un
richiamo teologico all’ontologia sacerdotale ed un richiamo al fatto che spiritualità
e attività – anzi, missione – e connotazione, identità, devono essere coniugate insieme
e il ministero dev’essere una conseguenza, anche come stile, di quell’identità. Un’identità
che è scavata sulla cristologia.
D. - "Sacerdoti non
soggetti a effimere mode culturali", ma liberi figli e testimoni di Cristo: in che
modo risuona in lei, eccellenza, questo appello, intenso, che vi ha rivolto il Papa? R.
- Penso che il richiamo alla libertà dei figli di Dio, alla libertà di essere quello
che si è e di diventare ogni giorno quello che si è, sia fondamentale e si riferisca
soprattutto – almeno come risonanza personale – al fatto di non essere condizionati
dalle mode che passano e che sono transeunte. D’altro canto, la Chiesa, vivendo nel
tempo, è chiamata ad evangelizzare gli uomini del tempo fino alla fine dei tempi,
e ogni generazione di ecclesiastico è chiamata a rispondere alle esigenze di cristianizzazione
di quella società. Oggi, noi siamo invasi dalla comunicazione e questo è un fatto
anche positivo per moltissimi versi. L’aspetto negativo – che però dobbiamo saper
gestire – è la tentazione di essere succubi di una mentalità comune che è veicolata
attraverso tutti i mezzi. Quindi, noi rischiamo qualche volta di essere intossicati
o di essere narcotizzati, a volte anche con una buona intenzione, pensando di andare
incontro alla società che si esprime in un determinato modo. Ma dobbiamo stare attenti
a non perdere quei valori perenni che sono il filo d’oro che ovviamente la Chiesa
stende lungo la strada ferrata dei secoli.
D. -
Negli ultimi giorni, si è fatto un gran parlare, spesso a sproposito, del celibato
sacerdotale, tema che è stato al centro dei vostri lavori: cosa si sente di dire in
proposito, eccellenza?
R.- Il celibato sacerdotale
è un dono, un grande dono che Dio fa a coloro che chiama al sacerdozio nella Chiesa
latina. Direi quindi che i doni sono sempre graditi e sono irrinunciabili se per di
più vengono fatti dal Signore. Io vedo il celibato legato nella logica dell’ontologia
sacerdotale: l’estrema convenienza del celibato sta all’interno della dottrina sul
sacerdozio. Perciò, non è tanto una disciplina. Certo, è anche una disciplina, ma
la disciplina è la seconda parte dell’antifona, è semplicemente la conseguenza, perché
il valore è intrinseco e poi la disciplina norma semplicemente ciò che è un valore.
Inviterei tutti quelli che vogliono capire qualcosa del celibato a leggerlo in chiave
di fede, di fede cristologica e di ardore nella missione, allora si capisce.
D.
- Come si fa a essere profeti di Dio in un mondo che spesso non ha orecchi per ciò
che riguarda lo spirito?
R. - Credo ci voglia un
tuffo totale nella radicalità evangelica e questo devo dire che nelle giovani generazioni
non è difficile. I ragazzi che bussano alla porta del seminario, che bussano alla
porta di istituti religiosi, sono evidentemente ragazzi generosi, che sono stati toccati
dallo sguardo del Signore. Sta a noi non tradirli nell’educazione e cioè non abbassare
il piano educativo pensando che, siccome il mondo ha determinate tematiche che non
riescono a capire molto bene le esigenze evangeliche, dobbiamo allora abbassare il
tono dell’educazione dicendo: “Per questo tipo di mondo bisogna andare un po’ più".
Non va fatto prima di tutto per rispetto a chi abita questo mondo, anche se fosse
un lontano, e anzi ancora di più. Secondariamentem perché questi ragazzi non si possono
deludere. Bisogna dar loro della sostanza e loro cercano sostanza.