2010-03-07 11:21:39

La rubrica dell'Anno Sacerdotale racconta la storia di padre Giorgio Licini, missionario del Pime che vive in Papua Nuova Guinea


Essere vicino alla gente, là dove ce n’è più bisogno, ma anche imparare a conoscersi meglio: sono gli obiettivi che porta avanti, ogni giorno, padre Giorgio Licini, missionario dall’altra parte del globo. Nato in Italia ed arrivato in Papua Nuova Guinea nel 2003, padre Licini vive a Port Moresby in veste di superiore della Delegazione locale del Pime, il Pontificio Istituto Missioni Estere. Al microfono di Isabella Piro, il religioso racconta com'è nata la sua vocazione:RealAudioMP3

R. – Ero molto piccolo, avevo 10-11 anni, quando ho pensato di farmi prete missionario. Poi ho iniziato il cammino di studio e di formazione, di riflessione. Ci ho pensato bene, ho pregato a lungo e ho deciso di andare avanti.

 
D. – Perché poi la scelta di diventare missionario?

 
R. – Non è dipeso da me: me la sono trovata dentro. Nelle nostre parrocchie, negli anni Settanta, c’erano molti missionari che visitavano i gruppi, i ragazzi venivano al catechismo, c’era un’intensa attività di animazione missionaria, per cui parecchi di noi ci siamo sentiti motivati e abbiamo deciso di tentare.

 
D. – A suo parere, quali caratteristiche deve avere un missionario per compiere al meglio la sua missione?

 
R. – Certamente, un grande spirito di dedizione, di carità, di adattamento, cercare di stare vicino alla gente: se si sta con la gente e si è felici con la gente, tutto va abbastanza bene. Se non si riesce a rapportarsi bene con la gente cui si è inviati, tutto diventa un po’ più difficile. Però, allo stesso tempo, c’è anche la fede, la convinzione, l’amore alla Chiesa soprattutto. Direi: se non c’è l’amore alla Chiesa, non c’è molta speranza per una vocazione missionaria.

 
D. – Quali progetti lei porta avanti in Papua Nuova Guinea?

 
R. – Noi siamo in una zona di periferia di Port Moresby, la capitale: i problemi non mancano. C’è molto alcolismo, ragazzi che non vanno a scuola, l’Aids, c’è un po’ un senso di sbandamento dovuto al fatto che la gente, in un passato non troppo lontano, viveva nei villaggi tradizionali. Adesso, invece, vive una vita urbana, moderna, organizzata all’occidentale, alla quale non è facile adattarsi. Per cui, noi siamo una parrocchia, una missione: abbiamo una scuola e cerchiamo di creare anzitutto uno spirito di famiglia, cerchiamo di essere vicini alla gente perché si senta un po’ rincuorata e porti avanti il suo cammino giorno per giorno.

 
D. – Lei ha detto spesso: “Il prete è uno di famiglia”. Cosa significa?

 
R. – Quello che fa un padre, una madre in una famiglia, a mio parere lo fa il prete in una parrocchia, in un quartiere, in una comunità: lo fa il prete che – come si diceva una volta – lavora in cura d’anime.

 
D. – Padre Giorgio, lei da quanti anni è missionario e cosa le ha insegnato lo stare in missione?

 
R. – Sono stato ordinato nel 1986, a Sotto il Monte, Bergamo. Poi, sono partito per le Filippine nel 1991, sono passato alla Papua Nuova Guinea nel 2003. E una delle cose che la missione ha insegnato molto a me - certamente anche riguardo a me stesso - è che ho scoperto che cosa riesco a fare e in che cosa non riesco, i miei limiti e anche le mie ricchezze. Mi arrabbio facilmente, ho poca pazienza, ma allo stesso tempo mi pare di aver scoperto che sono anche portato ad un certo senso di carità, generosità, accoglienza. Ho sempre gente attorno e questo anche mi rende felice.

 
D. – Sotto il Monte è la patria di Giovanni XXIII: è per lei un simbolo, questo Papa?

 
R. – Certo. Siamo cresciuti un po’ nello spirito di Giovanni XXIII in quegli anni: gli anni Sessanta, Settanta. Soprattutto nella diocesi di Bergamo, la figura del Papa era fortissima e quindi questo senso di generosità, apertura, accoglienza, amicizia, bontà che quel Papa ha espresso in quei pochi anni, penso sia penetrato un po’ nel cuore di ciascuno di noi.

 
D. – Qual è il suo augurio per l’anno sacerdotale in corso?

 
R. – Credo che dovrebbe aiutare ogni prete a stare vicino alla gente, con la gente, a spendere la sua vita per gli altri e con gli altri: negli ospedali, nelle carceri, nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche, nelle famiglie, nei quartieri, là dove la gente vive, pensa, soffre, ama, spende la sua vita, nasce e muore.







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