Sud Corea: l'impegno della Chiesa per i profughi nordcoreani
I rifugiati nordcoreani nella parte Sud della penisola “sono ancora troppo lontani
dall’integrazione. Inoltre, il loro numero si è moltiplicato: dai 947 del 1998 siamo
arrivati a 16.513, e continuano a crescere. Nel 2010 ci aspettiamo altri 3mila esuli,
e nel 2011 il numero totale supererà le 20mila unità”. Lo dice ad AsiaNews un dirigente
di Hanawon (che significa “Corea unita”) l’Istituzione governativa sudcoreana che
aiuta i rifugiati del Nord a integrarsi. Secondo i dati dell’organizzazione, che opera
in un campo estremamente sensibile per tutta la penisola coreana, il 58,4% di coloro
che chiede asilo politico si considera ancora cittadino del Nord, e soltanto il 6,3%
si ritiene integrato nel nuovo Paese. Il problema deriva sia dal duro indottrinamento
politico a cui tutti i nordcoreani sono sottoposti dal regime stalinista di Kim Jong-il,
sia da una difficile integrazione con i più moderni, e liberi, sudcoreani. Anche la
Chiesa cattolica si è occupata del problema, e all’inizio dell’anno ha tenuto un seminario
di 3 giorni dal tema “Saetomin, agenti del Vangelo”. Saeteomin in coreano significa
“rifugiati, coloni”, ed è il termine con cui i sudcoreani chiamano coloro che riescono
a scappare dal regime di Pyongyang per stabilirsi dall’altra parte del confine. Col
tempo, dato il bassissimo livello di integrazione degli esuli, è divenuto un termine
dispregiativo. Per il professore cattolico Ko Kyeong-bin, che insegna all’Università
di Seoul e ha concluso l’incontro, “l’agonia dei 20mila saeteomin che vivono qui ci
preoccupa molto. D’altra parte, questi sono soltanto lo specchio dei 20 milioni di
nordcoreani che arriveranno da noi dopo la riunificazione delle due Coree. Dobbiamo
fare molta strada, prima di essere pronti ad accoglierli nel modo giusto”. (R.P.