2010-03-04 15:17:09

Missione ad Haiti: la testimonianza di un pediatra del Bambino Gesù


Dopo il devastante terremoto del 12 gennaio scorso, Haiti cerca di risollevarsi: il sisma ha causato circa 300 mila morti e più di un milione e mezzo di sfollati. La ricostruzione sarà lunga. Immense le necessità. Tra i più bisognosi ci sono i bambini, spessi rimasti soli. Tanti i medici stranieri giunti ad aiutare i più piccoli: tra questi il dottor Michele Salata, pediatra dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma che ha collaborato con la rete di assistenza creata sui luoghi del disastro. Eliana Astorri lo ha intervistato al suo rientro in Italia:RealAudioMP3

R. – Il cuore rimane lì. Tornati in Italia si continua a ripensare ai bambini che abbiamo visto e che abbiamo assistito nell’ospedale.

 
D. – Quale è stato il primo impatto, appena arrivato?

 
R. – Il primo impatto è veramente disarmante: un Paese povero, con poche risorse. Immediatamente si vedono i segni devastanti del terremoto, che incidono su una realtà fatta di baracche e di povera gente. L’impatto più duro è quando si entra in ospedale, quando mi sono trovato davanti bambini senza una gamba, senza una gamba e una mano. Il primo pensiero è quello di come farà a ripartire un Paese fatto di giovani adulti che non hanno le mani e che non hanno le gambe. Questa è abbastanza disarmante come prospettiva futura.

 
D. – Nel suo racconto, pubblicato sul sito pediatrico del Bambino Gesù, lei fa riferimento al diverso modo di operare del personale medico locale. Cosa intende?

 
R. – E’ una diversità legata alle risorse che sono ancora povere rispetto a quello che è lo standard – chiamiamolo – occidentale e, quindi, la difficoltà era nostra nell’inserirci in maniera corretta, in maniera umile nella loro realtà. E questo perché comunque esistevano gli infermieri, esistevano i pediatri: l’ospedale, prima del terremoto, era un ospedale che aveva una sua funzionalità con standard elevatissimi per la realtà haitiana, con l’utilizzo di tecnologie anche all’avanguardia, per esempio, dal punto di vista della radiodiagnostica. Il nostro impegno era quello di rispettare quella che era la loro strada e il loro percorso anche di crescita, adeguandoci al contempo alla loro cultura. Assistere bambini che poi sotto i nostri occhi sono morti e sapere che con poche cose in Italia sarebbero sopravvissuti. In realtà per loro questa rappresentava la quotidianità prima del terremoto e prima che arrivassero i volontari e i medici internazionali che avevano altri standard ed altri livelli da quelli strumentali a quelli tecnologici.

 
D. – Quindi, una sorta di rassegnazione e accettazione?

 
R. – Questo si legge abbastanza. E’ un popolo che è molto provato da continue calamità naturali e sicuramente c’è quindi in questo popolo una grandissima fede in Dio. Purtroppo la rassegnazione in parte si legge, anche se devo dire che chi lavora all’interno dell’ospedale cerca di fare il massimo per i bambini.

 
D. – Dottor Salata, un medico che opera in quelle condizioni e non può salvare bambini che invece qui ce la farebbero, come si sente?

 
R. – Il senso di impotenza è fortissimo ed è veramente un susseguirsi di sensazioni, perché purtroppo i casi si ripetevano anche più volte al giorno. L’attività lavorativa era talmente elevata che ci costringeva a distoglierci rapidamente dal senso di frustrazione e di rabbia nel non poter fare di più. Ci aiutavano molto in questo gli stessi genitori che si affidavano nelle mani del Signore, accettavano con la fede, con la preghiera e con amore quella che era la realtà della loro terra, che li aveva provati ancora. Sicuramente per noi la difficoltà enorme è sentirci impotenti di fronte a un piccolo bambino di un chilo che moriva tra le braccia della mamma. (Montaggio a cura di Maria Brigini)







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