Missione ad Haiti: la testimonianza di un pediatra del Bambino Gesù
Dopo il devastante terremoto del 12 gennaio scorso, Haiti cerca di risollevarsi: il
sisma ha causato circa 300 mila morti e più di un milione e mezzo di sfollati. La
ricostruzione sarà lunga. Immense le necessità. Tra i più bisognosi ci sono i bambini,
spessi rimasti soli. Tanti i medici stranieri giunti ad aiutare i più piccoli: tra
questi il dottor Michele Salata, pediatra dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma
che ha collaborato con la rete di assistenza creata sui luoghi del disastro. Eliana
Astorri lo ha intervistato al suo rientro in Italia:
R. – Il cuore
rimane lì. Tornati in Italia si continua a ripensare ai bambini che abbiamo visto
e che abbiamo assistito nell’ospedale.
D. – Quale
è stato il primo impatto, appena arrivato?
R. – Il
primo impatto è veramente disarmante: un Paese povero, con poche risorse. Immediatamente
si vedono i segni devastanti del terremoto, che incidono su una realtà fatta di baracche
e di povera gente. L’impatto più duro è quando si entra in ospedale, quando mi sono
trovato davanti bambini senza una gamba, senza una gamba e una mano. Il primo pensiero
è quello di come farà a ripartire un Paese fatto di giovani adulti che non hanno le
mani e che non hanno le gambe. Questa è abbastanza disarmante come prospettiva futura.
D. – Nel suo racconto, pubblicato sul sito pediatrico
del Bambino Gesù, lei fa riferimento al diverso modo di operare del personale medico
locale. Cosa intende?
R. – E’ una diversità legata
alle risorse che sono ancora povere rispetto a quello che è lo standard – chiamiamolo
– occidentale e, quindi, la difficoltà era nostra nell’inserirci in maniera corretta,
in maniera umile nella loro realtà. E questo perché comunque esistevano gli infermieri,
esistevano i pediatri: l’ospedale, prima del terremoto, era un ospedale che aveva
una sua funzionalità con standard elevatissimi per la realtà haitiana, con l’utilizzo
di tecnologie anche all’avanguardia, per esempio, dal punto di vista della radiodiagnostica.
Il nostro impegno era quello di rispettare quella che era la loro strada e il loro
percorso anche di crescita, adeguandoci al contempo alla loro cultura. Assistere bambini
che poi sotto i nostri occhi sono morti e sapere che con poche cose in Italia sarebbero
sopravvissuti. In realtà per loro questa rappresentava la quotidianità prima del terremoto
e prima che arrivassero i volontari e i medici internazionali che avevano altri standard
ed altri livelli da quelli strumentali a quelli tecnologici.
D.
– Quindi, una sorta di rassegnazione e accettazione?
R.
– Questo si legge abbastanza. E’ un popolo che è molto provato da continue calamità
naturali e sicuramente c’è quindi in questo popolo una grandissima fede in Dio. Purtroppo
la rassegnazione in parte si legge, anche se devo dire che chi lavora all’interno
dell’ospedale cerca di fare il massimo per i bambini.
D.
– Dottor Salata, un medico che opera in quelle condizioni e non può salvare bambini
che invece qui ce la farebbero, come si sente?
R.
– Il senso di impotenza è fortissimo ed è veramente un susseguirsi di sensazioni,
perché purtroppo i casi si ripetevano anche più volte al giorno. L’attività lavorativa
era talmente elevata che ci costringeva a distoglierci rapidamente dal senso di frustrazione
e di rabbia nel non poter fare di più. Ci aiutavano molto in questo gli stessi genitori
che si affidavano nelle mani del Signore, accettavano con la fede, con la preghiera
e con amore quella che era la realtà della loro terra, che li aveva provati ancora.
Sicuramente per noi la difficoltà enorme è sentirci impotenti di fronte a un piccolo
bambino di un chilo che moriva tra le braccia della mamma. (Montaggio a
cura di Maria Brigini)