La gratitudine dei cristiani iracheni dopo l'esortazione di Benedetto XVI. Interviste
con mons. Philip Najim e don Renato Sacco
Nell’Iraq che si prepara all’appuntamento con la democrazia, rappresentato dalle ormai
imminenti lezioni di domenica prossima, continua a suscitare eco l’appello che Benedetto
XVI ha levato domenica scorsa all’Angelus in favore dei cristiani del Paese. Quella
frase del Papa – “non stancatevi di essere fermento di bene per la patria a cui da
secoli appartenete a pieno titolo” – ha riempito il cuore dei cristiani in tutto l’Iraq,
dando slancio e coraggio. Lo conferma mons. Philip Najim, procuratore della
Chiesa caldea presso la Santa Sede, intervistato da Fabio Colagrande:
R. – E’ un
messaggio del Papa per tutti i cristiani dell’Iraq e possiamo dividerla in due parti.
La prima parte sta chiamando tutti noi cristiani a dare ancora la testimonianza della
nostra fede e a non stancarci mai di essere cristiani, di portare la nostra croce
e vivere il Vangelo. La seconda parte ricorda a ciascuno di noi che siamo cittadini
a pieno titolo e che questa è la nostra patria. Perciò, attraverso la nostra fede
dobbiamo contribuire alla costruzione della nostra patria, assieme ai nostri fratelli
musulmani. Noi da secoli viviamo insieme in tolleranza e in piena amicizia, siamo
iracheni: dobbiamo cercare di rimanere in Iraq, dare allo Stato la nostra forza e
contribuire anche alla realizzazione della sicurezza e del futuro del Paese. D.
– Domenica scorsa, in Piazza San Pietro, c’era uno striscione che recitava: “Non ce
la facciamo più!”: perché in questo momento questa esasperazione? Per i morti a Mossul? R.
– Davvero la popolazione è stanca di tutte queste discriminazioni e persecuzioni,
siamo esseri umani. Ormai, non vediamo più una via d’uscita. Noi abbiamo la speranza
che un giorno la pace possa regnare, perché veramente è un dono prezioso, oggi come
oggi, poter vivere la pace, poter rinascere di nuovo e poter ricostruire un Iraq nuovo.
Siamo stanchi perché ci sentiamo dimenticati anche dalla comunità internazionale,
che non interviene per porre fine a queste discriminazioni e a queste persecuzioni
che si compiono ogni giorno nei confronti dei cristiani e nei confronti delle minoranze
in tutto il Medio Oriente. D. – Nella manifestazione a Mossul,
proprio i cristiani che hanno protestato in piazza hanno chiesto giustizia: il sangue
degli innocenti grida perché siano fermati terrorismo e violenza. Eppure, le autorità
locali non sembrano in grado di poter fermare questa mattanza vera e propria… R.
– La giustizia dev’essere compito dello Stato: non possiamo dare ancora sangue, non
possiamo dare ancora vittime… Siamo lasciati soli e il governo deve assumersi la propria
responsabilità per tutelare i diritti dei suoi cittadini. Tra le
sue tante vittime, l'Iraq ricorda sempre con affetto e piange la brutale scomparsa
di mons. Faraj Rahho, l'arcivescovo di Mossul dei caldei sequestrato due anni fa e
poi barbaramente ucciso. Il presule iracheno ritorna nel ricordo di don Renato
Sacco, delegato di Pax Christi Italia per l'Iraq, dove si è recato in numerose
occasioni. L'intervista è di Fabio Colagrande: R.
– Non si può non ricordarlo: era il 29 febbraio del 2008, io l’avevo appena incontrato
qualche giorno prima, ma non a Mossul perché era impossibile entrare. A qualche mia
domanda, mons. Rahho un po’ ironicamente mi ha risposto: invece di chiedere tutte
queste cose, vieni anche tu a vedere, no? Pur sapendo che la cosa non era fattibile.
Appena sono rientrato in Italia, è arrivata la notizia del suo rapimento, le preoccupazioni
e poi la notizia della sua morte: gettato in una discarica, in un modo indegno. Sembra
davvero che sia un Venerdì Santo, una Via Crucis infinita quella che sta vivendo il
popolo iracheno, e in particolare ancora di più ora i cristiani. Io ho avuto modo
di parlare in questi giorni anche con mons. Sako di Kirkuk che diceva: i cristiani
non cercano potere, non cercano violenza, non cercano ricchezza e forse questa potrebbe
essere una chiave per capire perché questo accanimento. D. –
Don Renato, visto che siamo in Quaresima, il pensiero, la riflessione sulle persecuzioni
molto dure che stanno subendo questi nostri fratelli cristiani in Iraq può essere
davvero anche uno spunto di preghiera in questo tempo di preparazione alla Pasqua? R.
– Io credo che dovremmo sicuramente pregare di più e la preghiera – ce lo insegna
Gesù, il Maestro – è sempre poi collegata alla vita, ha sempre uno sguardo rivolto
al Cielo ma ha i piedi molto per terra, per cui bisogna fare in modo che le nostre
preghiere siano fatte anche sfogliando il giornale chiedendoci: chi oggi paga con
il proprio sangue e la propria vita la testimonianza, la carità o scommette sul dialogo,
che è ritenuto perdente? La nostra Pasqua è una Pasqua si Risurrezione, soprattutto
per chi vive oggi il Calvario. L’Iraq non è un Paese anonimo: è fatto di volti, di
nomi, di persone, di mani strette, di abbracci condivisi e, quindi, quando si pensa
ai volti si umanizza un rapporto. Forse la Quaresima ci deve davvero convertire su
questo. Lo chiediamo nella preghiera al Signore. (Montaggi a cura di Maria
Brigini)