Via Crucis a Betlemme per costruire ponti, non muri
Una Via Crucis animata dalle parrocchie di Betlemme, Beit Jala e Bet Sahour, per non
dimenticare il Muro di separazione eretto a Betlemme, la cui prima pietra fu posata
il primo marzo del 2004. È l’iniziativa Un ponte per Betlemme 2010, organizzata
per oggi pomeriggio da Pax Christi Italia, dal Patriarcato latino di Gerusalemme e
dall’Agesci. Il servizio di Giada Aquilino: “Domando alla
comunità internazionale di non lasciare nulla di intentato per aiutare israeliani
e palestinesi ad uscire” dal vicolo cieco della violenza, privilegiando dialogo e
negoziato. Era il 28 dicembre 2008 e a Gaza erano giorni di guerra: il Papa, con queste
parole, pregava per la pace in Terra Santa. Oggi quell’appello di Benedetto XVI risuona
nuovamente alla Via Crucis che si snoderà per le vie di Betlemme, Beit Jala e Bet
Sahour, in occasione dell’iniziativa Un ponte per Betlemme 2010. Dalla Terra Santa,
ce ne parla don Nandino Capovilla, coordinatore nazionale di
Pax Christi Italia: R. – Si tratta di un’iniziativa fraterna,
forte, convinta di comunione e di solidarietà, in una situazione drammatica. Anche
in queste ore, le notizie da Gerusalemme parlano genericamente di scontri, ma noi
che siamo qui vogliamo gettare un ponte di comunione e di preghiera e vogliamo anche
scuotere le nostre Chiese in Occidente perché i cristiani e i musulmani stanno gridando
il loro desiderio di non essere abbandonati, dimenticati. D.
– Nelle prossime ore si terrà una Via Crucis… R. – Sì, una Via
Crucis attraverso i luoghi della sofferenza a Betlemme. Si sono preparati i giovani
delle parrocchie, i sacerdoti del Patriarcato per aprirci le porte delle loro case
e intonare un’unica preghiera, un’unica supplica al Dio della pace. Sua Beatitudine
Fouad Twal inaugurò il primo marzo di tre anni fa Un ponte per Betlemme, quando non
era ancora diventato Patriarca latino di Gerusalemme. D. – Per
Pax Christi, quella di oggi è un’iniziativa per far memoria del Muro. In che condizioni
vive la popolazione locale? R. – Questo è il centro della nostra
preghiera, della nostra attenzione: un muro che non solo divide, separa due popoli,
ma soffoca la possibilità di conoscenza reciproca e di pacificazione. D.
– Benedetto XVI, durante la guerra a Gaza, aveva chiesto alla comunità internazionale
di non lasciare nulla di intentato per aiutare israeliani e palestinesi ad uscire
dal vicolo cieco della violenza. Com’è possibile? R. – E’ possibile
attraverso il ripristino della legalità internazionale, soprattutto con l’applicazione
delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Questo è l’impegno: non l’impegno per una ‘pace
economica’, com’è stata definita da alcuni, ma l’impegno a far sì che siano rispettate
le risoluzioni dell’Onu a partire da quella, appunto, che riguarda il muro. Ma
la sete di pace è sempre forte in Medio Oriente, dove il ricordo della guerra a Gaza
è purtroppo ancora realtà. Ce ne parla suor Alicia Vacas, missionaria
comboniana a Betania, vicino Gerusalemme: R. – Anche se è già passato un
anno, penso che il ricordo di quei giorni sia sempre drammatico per noi, soprattutto
pensando che la ricostruzione non è avvenuta, che l’embargo vieta l’ingresso a Gaza
di ogni materiale di costruzione: non c’è cemento, non c’è vetro, non c’è ferro. E
fa male pensare che la devastazione cui noi abbiamo assistito a Gaza, è esattamente
la stessa che c’è in questi giorni: la gente che era sotto le tende continua a vivere
lì. D. – Che cosa serve alla gente di quelle zone? R.
– Materialmente serve di tutto, ma soprattutto serve sentire la vicinanza della comunità
internazionale. D. – Il Papa, venendo in Terra Santa e poi con
i continui appelli, è sempre vicino alla popolazione locale. Come sono accolte le
preghiere del Pontefice? R. – Penso che siano molto importanti.
Penso che la gente abbia proprio il bisogno di sentire, al di là di ogni posizione
politica, una comprensione, un sostegno per la propria sofferenza. Proprio
un invito a non dimenticare la sofferenza delle popolazioni di Terra Santa viene da
Pax Christi Italia. Sentiamo il presidente del movimento, mons. Giovanni
Giudici: R. – Il pellegrino che viene in Terra Santa, spinto
dal desiderio di vedere i luoghi dove Gesù è vissuto e le pietre che ha visto, incontra
anche una ingiustizia nel presente. E questa ingiustizia non può essere dimenticata. D.
– Pax Christi è costantemente presente in Terra Santa: qual è la situazione della
popolazione civile? R. – Soffre di questa mancanza di rispetto
per le proprie libertà e dignità. Quindi la popolazione araba – cristiana e musulmana
– sente che non c’è una prospettiva chiara per il futuro. D.
– Il Papa nelle sue preghiere ricorda costantemente la Terra Santa. Come è possibile
arrivare alla pace? R. – La scelta di dialogare tra palestinesi
e israeliani è una scelta fondamentale. Noi come cristiani possiamo dare un contributo
richiamando l’importanza di andare oltre il Muro. Non dimentichiamo lo slogan che
ci ha lasciato Giovanni Paolo II: “non muri, ma ponti”. E questo vuol dire aiutare
tutte quelle espressioni della società israeliana e palestinese che si incontrano,
nella fiducia che il filo che cuce questo tessuto stracciato della comunità possa
diventare sempre più robusto e contribuire, appunto, a superare le lacerazioni.