Giornata delle malattie rare: 30 milioni di pazienti solo in Europa, l'80% bambini
Il Papa oggi all'Angelus ha salutato i rappresentanti della "Federazione italiana
malattie rare", presenti in Piazza San Pietro in occasione dell'odierna Giornata mondiale
dedicata a queste patologie. La Giornata quest’anno si svolge sul tema dell’alleanza
tra pazienti e ricercatori e il suo obiettivo è quello di sensibilizzare l’opinione
pubblica e le autorità competenti affinché le malattie rare siano inserite tra le
priorità della sanità pubblica. Solo in Europa sono circa 30 milioni le persone interessate:
l’80% sono bambini. Ma cosa sono le malattie rare? Eliana Astorri lo ha chiesto
al prof. Giuseppe Zampino, pediatra e genetista, responsabile del Servizio
di clinica dei difetti congeniti al Policlinico Gemelli di Roma:
R. – La rarità
è un numero, è una frazione: uno su duemila. In realtà se noi consideriamo questa
frazione della malattia rara - uno su duemila – rappresentiamo soltanto una parte
del problema proprio perché le malattie rare sono numerosissime: se ne calcolano almeno
3.000 ed alcuni siti ne danno addirittura 5.000. Si calcola, inoltre, che ogni settimana
ci siano almeno 5 condizioni rare nuove che vengono descritte. Se noi andiamo, quindi,
a mettere la somma di tutte queste condizioni, la probabilità di avere un bambino
con una malattia rara e con una disabilità congenita è molto alta ed arriva ad almeno
uno su duecento.
D. – E’ più comune che una malattia
rara colpisca un bambino, piuttosto che insorga in età adulta?
R.
– Insorge anche in età adulta, ma il punto è che le stime di incidenza o meglio di
prevalenza sono state più facili da formulare nella popolazione pediatrica.
D.
– L’essere degenerativa, cronica o progressiva sono caratteristiche comuni a tutte
le malattie rare?
R. – Non necessariamente. Alcune
condizioni sono croniche, ma non sono progressive e non sono degenerative. Le condizioni
degenerative sono principalmente quelle metaboliche.
D.
– Che ruolo hanno la genetica e la familiarità?
R.
– La maggior parte delle malattie rare ha un’eziologia genetica. Questo significa
per la famiglia un grosso impatto emotivo, perché c’è sempre la colpa riproduttiva.
Anche l’accettazione stessa della malattia può essere difficile. La tubercolosi, per
esempio, è una malattia e un qualcosa che ti viene dall’esterno e che devi combattere;
quando invece si tratta di un qualcosa che ti coinvolge direttamente, è necessario
fare un’operazione non di combattimento, ma di accettazione della malattia, facendo
in modo che ci siano delle strategie che rendano meglio accettabile questa condizione.
D.
– Perché mancano i farmaci che possono curare queste malattie?
R.
– Mancano i farmaci proprio perché le condizioni sono rare e, quindi, se sono rare
non si conoscono i meccanismi e laddove si conoscono i meccanismi è difficile impostare
una ricerca farmacologica per un piccolo numero di pazienti, perché una ricerca ha
degli alti costi. Se l’industria non ha un pagamento di questo sforzo economico, difficilmente
investe e se deve investire su una terapia che coinvolge 200-300 pazienti in tutto
il mondo, i costi diventano troppo alti per poterli affrontare. Forse un grande sforzo
dovrebbe essere fatto per una ricerca socio-sanitaria: quando mi trovo di fronte ad
una condizione cronica disabilitante, mi rendo conto che vengono coinvolti moltissimi
sistemi. Prendiamo, ad esempio, un bambino con una sindrome qualsiasi, dove c’è un
coinvolgimento di cuore, di polmoni, di orecchio, di occhio e di sistema nervoso centrale:
la prima cosa che devo fare è quella di cercare di attuare una strategia di trattamento
integrato e devo cioè coordinare gli interventi di tanti specialisti. Prima di tutto
devo avere dei centri che facciano una assistenza integrata multispecialistica e dove
soprattutto tutti gli specialisti sappiano cosa fare. Noi parliamo di condizioni croniche
disabilitanti che investono tutto il vissuto del bambino e della famiglia e che quindi
non possono essere limitate solamente alle pareti dell’ambulatorio. Bisogna aprire
le porte dell’ambulatorio ed arrivare sul territorio. Il medico deve lasciare il camice
e vestirsi di una nuova veste, che è quella di un operatore che svolge funzioni di
raccordo non solo sanitarie, ma anche socio-sanitarie e, quindi, deve diventare –
diciamo – un coordinatore multisettoriale, oltre che multidisciplinare. L’unico modo
per aiutare una famiglia è avere un atteggiamento nuovo, integrato, di forte collaborazione
che permetta alle strutture specialistiche e alle strutture di territorio - che sono
conoscitrici della malattia e sono conoscitrici delle risorse che sono sul territorio,
dove tutto il giorno il bambino vive - una integrazione di conoscenza. Questa integrazione
di conoscenza permette poi di far star bene il bambino e la famiglia. (Montaggio
a cura di Maria Brigini)