Ginevra: esperti ed ex condannati lanciano la campagna contro la pena di morte
Una moratoria universale della pena di morte; la proposta è emersa con forza nel corso
del IV Congresso mondiale contro la pena capitale, che si chiude oggi a Ginevra. Al
termine dei lavori sarà infatti adottata una “dichiarazione” che verrà consegnata
all’Alto commissario Onu per i Diritti umani, Navi Pillay. Per l’occasione, diversi
esperti hanno messo a punto strategie per convincere i 58 Paesi che applicano ancora
la pena capitale ad accettare una moratoria: per molti bisogna affidare questo compito
alle persone giuste e soprattutto è necessario diffondere più immagini e informazioni
per sensibilizzare l’opinione pubblica. Ma nel corso della tre giorni animata da dibattiti
e tavole rotonde sono emerse soprattutto le testimonianze di ex-condannati scampati
al “braccio della morte”. “La pressione internazionale sta crescendo, possiamo essere
ottimisti su una moratoria universale come prima tappa verso l’abolizione” ha detto
alla Misna, Joaquim José Martinez, condannato nel 1997 in Florida ma in seguito riconosciuto
innocente e liberato nel 2001. “La nostra battaglia va fatta Paese dopo Paese” ha
poi sottolineato l’ex-ministro della Giustizia francese, Robert Badinter, secondo
il quale in nessun posto al mondo la pena di morte rappresenta davvero un deterrente
contro la criminalità. Diversi attivisti impegnati nella difesa dei diritti umani
hanno invece dato voce alle “categorie più vulnerabili, i minorenni e i malati mentali”:
dal Sudan all’Iran, dove la maggiore età è fissata a nove anni per le femmine e a
15 per i maschi, le esecuzioni di minorenni sono frequenti anche per chi è coinvolto
nel traffico di droga. Altre categorie vulnerabili sono gli immigrati e i gruppi sociali
più poveri. “Nei Paesi del Golfo gli immigrati giunti dall’Asia e dall’Africa per
lavorare rappresentano ormai il 30% della popolazione e il 50% dei condannati a morte”
ha ricordato Nabeel Rajab, presidente del “Centro per la difesa dei diritti umani”
del Bahrein, sottolineando “la loro vulnerabilità in mancanza di assistenza diplomatica
da parte del Paese di origine, di sostegno politico, economico e giuridico”. Dagli
Stati-Uniti al Pakistan, l’origine etnica e la mancanza di risorse economiche per
difendersi sono indicati da avvocati e rappresentanti della società civile come “aggravanti
che avvicinano la condanna a morte”. (M.G.)