Il vescovo di El Obeid: bene l'accordo in Darfur, ma non basta
“Un segno positivo verso la pace, ma non basta”. Così mons. Antonio Menegazzo,
amministratore apostolico della diocesi di El Obeid in Sudan, commenta l’accordo raggiunto
due giorni fa, dopo anni di conflitto in Darfur, tra i ribelli del "Jem", Movimento
per la giustizia e l’uguaglianza, e il governo di Khartoum. La firma definitiva
è prevista per il 15 marzo, prima cioè delle elezioni politiche. Secondo il presidente
al-Beshir “la guerra del Darfur è terminata”. Tuttavia la situazione nella martoriata
regione resta instabile: proseguono i saccheggi delle milizie arabe "janjaweed" e
sono nati nuovi gruppi armati di banditi. Ascoltiamo mons. Menegazzo al microfono
di Paolo Ondarza.
R. – Senz’altro
è importante un passo verso la pace. Naturalmente, però, non è una pace completa,
perché le fazioni dei ribelli sono parecchie anche se il "Jem" è la principale. Finché
non ci sarà un accordo complessivo con tutti gli altri gruppi, non si potrà parlare
di una vera pace.
D. – Il presidente del Sudan, Omar
Assan al-Beshir, ha detto che la guerra del Darfur è terminata. C’è il rischio che
possa trattarsi anche di uno slogan elettorale?
R.
– Un po’ sì, senz’altro. Le elezioni senza dubbio c’entrano molto, perché avevano
tante altre occasioni per fare la pace e per venire a degli accordi, e invece accade
solo adesso che siamo vicini alle elezioni politiche, che ci saranno in aprile.
D.
– Quindi, non deve passare il messaggio che la guerra è finita, perché questo potrebbe
determinare un calo dell’attenzione da parte della comunità internazionale sulla situazione
che invece resta molto delicata...
R. – Certo, non
è assolutamente finita la guerra, almeno finché non ci sarà un disarmo di questa milizia
dei "janjaweed" e dei gruppi di banditi che sono causa della guerra, perché rendono
insicura tutta la regione.
D. – Può ricordare comunque
a tutti gli ascoltatori come vive la popolazione civile?
R.
– Sì, 15 giorni fa ero nel Darfur e ho visitato le tre parrocchie: a Nyala, el
Fasher e Daen. Naturalmente, c’è più calma, più sicurezza o meno
pericolo dei mesi scorsi, però ci sono ancora attacchi sporadici da parte delle forze
governative contro gruppi di ribelli. Per cui naturalmente la gente si trova ancora
nei campi e ha paura di tornare nei vecchi villaggi, anche perché possono essere sempre
assaliti, da un momento all’altro, dalle milizie arabe di questi famosi "janjaweed".
D. - Quindi, la situazione da un punto di vista
umanitario resta grave?
R. – Sì, resta come prima
praticamente. Finché la gente non riuscirà a tornare nei propri villaggi e vivere
con le proprie forze dovrà dipendere dalle organizzazioni internazionali. E dopo l’espulsione
di alcune organizzazioni umanitarie la gente ha sofferto molto di più, perché quelli
che sono stati espulsi erano veramente il cuore degli aiuti: distribuivano viveri
e si interessavano veramente del benessere della gente e soprattutto degli sfollati.
D.
– Non necessariamente questo accordo spiana la strada ad un accordo con altri ribelli:
lei faceva riferimento ai "janjaweed"...
R. – Sì,
io penso che questo forse serva, perché altri ribelli, altri gruppi, vedendo che questi
nuovi gruppi che hanno fatto la pace o il cessate il fuoco con il governo hanno dei
vantaggi, anche loro capiranno adagio adagio che l’importanza della pace è molto forte
e che dai combattimenti e dalla guerra non si ottiene niente.
D.
– Come la Chiesa vive questi avvenimenti di queste ultime ore?
R.
– Vive con ansia questi avvenimenti, perché naturalmente pace vuole dire libertà di
movimento, vuol dire potere lavorare pastoralmente molto di più di quanto si riesca
adesso.