Mons. Migliore: le potenze nucleari abbiano il coraggio del disarmo
L’appuntamento con il riesame del Trattato di non proliferazione nucleare (Ntp) è
per il 3 maggio, all’Onu di New York, dove il segretario generale Ban Ki-moon discuterà
con i grandi del mondo. Nel frattempo, in queste ore, si riunirà il Comitato per il
disarmo, organo consultivo delle Nazioni Unite, presieduto dall’italiano Carlo Trezza,
con il compito di elaborare le raccomandazioni in vista dell’incontro di maggio. Occorre
evitare, ha sottolineato lo stesso Trezza, che si fallisca come nell’ultima Conferenza
di riesame Ntp del 2005. Importante, spiega mons. Celestino Migliore, osservatore
permanente della Santa Sede presso l’Onu, è che proprio i grandi dimostrino buona
volontà. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato.
R. - Dopo
tanti anni di stagnazione, dove il discorso del disarmo nucleare non ha fatto nessun
progresso, abbiamo delle buone ragioni per sperare. Ragioni che provengono anche da
quei Paesi che hanno più le mani in pasta in questo campo. Ovviamente il problema
non è solo la non proliferazione ma anche il disarmo nucleare, perché l’arma nucleare
non può essere un’arma difensiva. E’ solo un’arma distruttiva. C’è, in questo processo
di negoziati, un articolo che parla dell’impegno che gli Stati nucleari, cioè i cinque
Stati membri del Consiglio di sicurezza che si sono dati essi stessi il diritto di
possedere l’arma nucleare. In quest’articolo loro si sono anche impegnati ad iniziare
dei negoziati seri e in buona fede per arrivare al disarmo ed è importante che questo
accada. Se non si mette in pratica quest’impegno tutti gli altri discorsi sulla non
proliferazione, sui nuovi Stati che diventano Stati nucleari di contrabbando, diventano
inefficaci. I cinque Stati nucleari, se vogliono essere credibili devono dire: “Bene,
noi abbiamo promesso di cominciare questi negoziati in buona fede. Cominciamoli”.
Su questa base abbiamo anche l’autorità morale di dire ad altri Paesi: “No, tu non
puoi avere l'arma atomica, e imporre sanzioni”. Senza questo non c’è autorità morale. D.
– Le emergenze legate alla crisi economica, le ricadute sui Paesi più poveri sono
temi dei quali si sarebbe dovuto dibattere ampiamente all’Onu, eppure è mancato un
approccio concreto. I governi hanno sì messo mano ai portafogli, ma per salvare le
banche e non i Paesi più vulnerabili. Lei cosa ne pensa?
R.
– Quando parliamo all’Onu di queste cose, in questi ultimi tempi si avverte sempre
di più una frammentazione culturale tale che tutti parlano di sviluppo, ma ci sono
mille concetti di sviluppo. Sulle questioni di povertà e di diritti umani c’è chi
non lo dice direttamente ma implicitamente: “I diritti umani li do io come Stato,
sono io a determinare il contenuto, a dire a chi applicarli e a chi non applicarli”.
Altri, come noi, dicono che ci sono dei diritti umani basici, che sono inerenti alla
persona e che non si possono sottoporre a questo voto o a quell'altro. Ecco, c’è questa
grossa frammentazione, per cui indubbiamente è vero che all’Onu si lavora alacremente
su questi aspetti, però poi il risultato è la montagna che partorisce il topolino,
perché c’è questa grande frammentazione culturale. Ed è proprio qui l’importanza dell’enciclica
“Caritas in veritate”. Io ho visto, tra moltissimi ambasciatori di moltissime delegazioni
all’Onu, come un respiro nel leggere questo documento come anche il messaggio del
Santo Padre per la Giornata Mondiale della Pace sul Creato. Parole che danno la giusta
prospettiva sulla quale poter discutere, perché, come dicevo prima, c’è questo spirito
che richiama alla Torre di Babele che divide invece di unire.
D.
– Ultimamente in un suo discorso alle Nazioni Unite lei ha sottolineato come l’eliminazione
della povertà ed un dignitoso lavoro per tutti siano alla base dell’integrazione sociale.
Le sembra che ci sia la giusta sensibilità da parte di chi dovrebbe favorirla?
R.
– Io sono partito da una constatazione che il Papa fa nell’enciclica “Caritas in veritate”:
dice che la globalizzazione ci aiuta a coabitare civilmente ma non ci rende fratelli.
Questo mi è sembrato un punto molto importante proprio in vista dell’integrazione,
della coesione sociale di cui abbiamo bisogno oggi. Se vogliamo ottenere l’integrazione,
dobbiamo mirare a diventare fratelli. “Fraternità” ha un significato molto particolare
per noi cristiani ed è proprio questo il contributo che dobbiamo dare.
D.
– Sono annose e sempre più evidenti le difficoltà a trovare il consenso necessario
alla riforma del Consiglio di sicurezza. A che punto è il dibattito?
R.
– In questo momento si vede che si ripetono le posizioni dei diversi Paesi, dei diversi
gruppi ma non c’è ancora un vero negoziato su una formula o su due formule da mettere
insieme. Una cosa è certa: che se veramente l’Onu non si affretta a riformare seriamente
alcune questioni e modalità – soprattutto del Consiglio di Sicurezza – continuerà
a perdere di rilevanza.