Il vescovo di Como, Diego Coletti, riflette sulla Quaresima: penitenza e digiuno mortificazioni
che scuotono l'uomo dal suo egoismo
All'Angelus, di domenica scorsa, prima di ritirarsi nel Palazzo apostolico per la
settimana di esercizi spirituali, Benedetto XVI aveva definito la preghiera e la penitenza
le "armi della fede" per eccellenza della Quaresima. Al microfono di Fabio Colagrande,
il vescovo di Como, mons. Diego Coletti, indica come sia possibile declinare
nella vita quotidiana quetse pratiche, assieme all'invito alla conversione:
R. – La penitenza
e il digiuno bisognerebbe volgerli in positivo, fare cioè in modo che queste rinunce
e questi “no” cui ci invita il Vangelo siano sullo sfondo di un grande “sì” alla libertà,
alla giustizia, alla pienezza di una vita spesa per amore: è soltanto questa funzione
liberante che giustifica la mortificazione cristiana. Per quanto riguarda invece la
conversione è da accettare, o meglio da attendere o da accogliere come un dono, perché
è il Signore che è capace di farci un cuore nuovo e di toglierci dalla vecchiaia dell’uomo
ripiegato su se stesso.
D. – Proprio nella sua catechesi
per il Mercoledì delle Ceneri, il Papa insisteva sull’importanza di andare controcorrente.
Lei però sottolinea, anche ai fedeli della sua diocesi, la tentazione che consiste
nel fatto di sentirsi migliori degli altri proprio perché si è fatta questa scelta…
R.
– Accade per tutti i gruppi che, avendo la vita segnata da qualche valore e da qualche
ideale, corrono il rischio – come i farisei – di sentirsi una parte separata dell’umanità
e migliore degli altri. Per cui, dal loro punto di vista, si sentono autorizzati a
giudicare e a condannare piuttosto che a sentirsi solidali e a farsi prossimo. Questo
è il rischio di tutte le persone che si mettono in un cammino alto ed esigente di
vita interiore, mentre questo stesso cammino dovrebbe farci sentire ancora più vicini
a chi è disperso, a chi è smarrito, a chi soffre, a chi è in ricerca. Questo perché
sappiamo che il dono ricevuto è fondato sull’amore gratuito di Dio e non sui nostri
meriti e quindi ci spinge ad essere ancora più attenti a chi, intorno a noi, ha bisogno
di luce e di un sapore nuovo della vita: il Signore ci ha detto che noi siamo “il
sale della terra e la luce del mondo” e quindi il sale non sala se stesso, non è ripiegato
su di sé. La luce non illumina la lampadina, ma luce e sale sono continuamente a servizio
di ciò che va illuminato e insaporito.
D. – Come
combattere questa tentazione, secondo lei, qual è il modo migliore?
R.
– Vivere nel clima della grazia, cioè vivere nel clima di un’accoglienza dell’amore
gratuito che si manifesta nel suo vertice definito nella Croce di Cristo e quindi
il cammino verso la Pasqua è significativo di questa cura della nostra supponenza,
della nostra presunzione. Vivere la grazia vuol dire quindi vivere sapendo di essere
amati gratuitamente e sapendo che lo scopo della vita non è quello di compiacersi
delle proprie prerogative spirituali, ma di rendere tutto ciò che noi riceviamo gratuitamente
da Dio un dono messo a disposizione degli altri. (Montaggio a cura di Maria
Brigini)