Cristiani e musulmani uniti per dare speranza al Medio Oriente
“Il futuro è vivere insieme. Cristiani e musulmani del Medio Oriente in dialogo”.
Questo l’appuntamento organizzato per oggi a Roma dalla Comunità di Sant’Egidio, che
riunisce nella sede di Trastevere i principali esponenti delle comunità religiose
e culturali mediorientali. Il servizio di Giada Aquilino:
“Siamo portatori
di speranza”. Questa la certezza della Comunità di Sant’Egidio nel confrontarsi con
la difficile realtà dei cristiani in Medio Oriente, una terra il cui futuro passa
per il dialogo col mondo islamico. In Iraq la situazione per la comunità cristiana
rimane davvero difficile: l’esodo dei fedeli dal Paese del Golfo è inarrestabile,
anche alla vigilia di un appuntamento cruciale come quello delle elezioni parlamentari
del prossimo 7 marzo. La testimonianza di mons. Louis Sako, arcivescovo
di Kirkuk dei Caldei:
R. - Noi siamo iracheni, originari
di questo Paese. Abbiamo dato tanto all’Islam, abbiamo aperto le nostre scuole, i
nostri ospedali, i monasteri, le chiese. Abbiamo messo a disposizione il linguaggio
teologico, scientifico e filosofico. Ma ora siamo lasciati un po’ al di fuori, emarginati,
non sappiamo come agire perché non c’è un’autorità.
D.
– Lei ha detto di temere che l’Iraq vada verso una divisione…
R.
– Perché c’è una grande tensione fra sciiti e sunniti ed anche curdi. Il Kurdistan
è quasi uno Stato adesso. Ciò che può garantire la coesistenza di tante comunità è
proprio lo Stato, cioè la politica del governo.
D.
– Di fronte ai recenti assassini di cristiani in Iraq qual è la vostra reazione?
R.
– Sono molto triste e preoccupato. C’è un piano, soprattutto a Mossul, per "svuotare"
la città dai cristiani.
D. – In cosa sperate allora?
R.
– Dobbiamo rimanere e portare questa Croce per noi e per il nostro Paese. Poi diamo
una testimonianza anche con questo sangue. Il sangue dei martiri darà il suo frutto. La
pace che tarda ad arrivare anche in Terra Santa fa poi emergere ogni giorno le ferite
di una comunità cristiana - anch’essa esigua, 170 mila i fedeli, che convivono con
5 milioni e mezzo di ebrei e 3 milioni di musulmani - che fa i conti col sanguinoso
conflitto tra israeliani e palestinesi. Ecco padre Pierbattista Pizzaballa,
Custode di Terra Santa:
R. – I cristiani in Terra
Santa sono rimasti intorno all’uno per cento della popolazione, sono cristiani cattolici,
ortodossi e di tante altre confessioni. E’ una presenza molto fragile ed è purtroppo
in continua diminuzione.
D. – Perché i cristiani
stanno diminuendo in Terra Santa?
R. – Sono tante
le ragioni. Innanzitutto c’è un’instabilità politica che crea difficoltà economiche.
Dove non c’è una politica forte anche l’economia è debole: soprattutto dentro l’Autonomia
palestinese, che è una realtà molto fragile, dove lo Stato sociale non esiste. I cristiani
poi hanno, in genere, una buona formazione professionale, anche di lingue, e ciò li
facilita nella loro emigrazione, una loro collocazione professionale all’estero è
molto più allettante che non in Terra Santa. Da più parti è
arrivata l’esortazione a preparare un clima culturale nuovo, fondato sul dialogo tra
cristiani e musulmani, come ha spiegato Mohammed Esslimani, teologo
islamico dell’Arabia Saudita:
R. – Dobbiamo superare
le vecchie visioni che ci sono tra le due fedi e preparare un nuovo clima che si fondi
su una buona interpretazione e sul quadro attuale delle cose.
D.
– Lei ha detto che “c’è bisogno di una cultura consapevole, che scelga il dialogo
invece dello scontro”. Com’è possibile?
R. – Dobbiamo
rieducare la gente a questa nuova cultura del dialogo, perché una cultura di scontro
e contrapposizione non può che portare la distruzione.
D.
– L’obiettivo delle religioni, oggi, quale deve essere?
R.
– Il primo fine delle religioni, a mio parere, è di educare la gente a vivere in pace.
Dal confronto con l’altro sembra, dunque, arrivare una certezza
per il futuro del Medio Oriente. Ne è convinto don Vittorio Ianari,
responsabile dei rapporti con l’Islam della Comunità di Sant’Egidio:
R.
- Pensando al Medio Oriente, soprattutto alla presenza dei cristiani in queste terre,
sia come motivazione per coloro che stanno lì, sia nel dialogo con l’islam, sia a
livello politico, c’è bisogno di mettere in campo un’altra cultura, un altro modo
di pensare, altri valori. Ciò è fondamentale, perché altrimenti non c’è futuro.
D.
– Come affrontare la realtà odierna dei cristiani in Medio Oriente, l’esodo, le violenze,
gli omicidi?
R. – C’è una situazione di difficoltà.
Dentro questa difficoltà c’è l’esigenza di una presenza, di una memoria, di un lavoro
culturale ed anche di cogliere un’opportunità che per fortuna è vera non solo per
coloro che sono legati per motivi di fede, per motivi di missione a questa presenza
dei cristiani in Medio Oriente ma anche un po’ più in generale. Questa situazione,
dopo l’11 settembre, con la guerra in Iraq, fa crescere nell’opinione pubblica occidentale
– talvolta in maniera un po’ esacerbata, un po’ fuori dalle righe, ma per lo più in
maniera importante – un’attenzione alla presenza cristiana in Medio Oriente che qualche
anno fa non c’era assolutamente. Si diceva in maniera stanca: soffrono, stanno emigrando,
ma non c’è paragone fra quello che si poteva leggere sui giornali o sui mass media
in generale una decina d’anni fa e l’attenzione di oggi. Questa è anche un’opportunità
per far sì che effettivamente questa situazione evolva in maniera migliore.
D.
– Oggi il dialogo tra cristiani e musulmani per dove passa?
R.
– Passa per una grande pazienza, una “pazienza geologica” come si diceva in passato,
e per una qualche passione. Il dialogo è un po’ come la preghiera.