L'Unesco lancia l'Anno internazionale per l'avvicinamento delle culture
Mostrare gli effetti benefici della diversità culturale, riconoscendo l’importanza
degli scambi incessanti tra le culture. E’ uno degli obbiettivi dell’Anno internazionale
per l’avvicinamento delle culture lanciato ufficialmente giovedì scorso all’Unesco
di Parigi. L’iniziativa stabilita quale evento culmine del Decennio per la cultura
della pace intende evidenziare il ruolo prioritario della conoscenza e della comprensione
reciproca ai fini della concordia fra le Nazioni. Ma cosa significa avvicinare le
culture in una società globalizzata? Paolo Ondarza lo ha chiesto al prof.Mario Catani, docente di sociologia della globalizzazione all’Università di
Parma.
R. – Credo
che avvicinare le culture oggi debba significare soprattutto fare uno sforzo di ocmprensione
e di conoscenza prima di tutto – e può sembrare paradossale – riconoscendo le differenze.
Soltanto così potremmo trovare, invece, come si possa convivere. D.
– Da una parte, quando si parla di confronto tra culture, si teme il rischio di un
appiattimento culturale in cui la specificità di ognuno si perde; è altrettanto da
paventare il rischio dell’accostamento tra culture diverse che non dialogano, ipotesi
questa che molto spesso provoca – presto o tardi – conflitti o divisioni … R.
– Da un lato, la globalizzazione ha omologato una sorta di pensare comune, un modo
di pensare soprattutto a livello economico ma che si riverbera anche nella società,
un pensiero unico. Il problema è che non è unico il punto da cui provengono le varie
culture. La paura sì, da un lato è di omologarci, dall’altro è quello di perdere la
nostra identità. D. – Il discorso, infatti, è molto complesso,
soprattutto quando si affrontano tematiche legate all’immigrazione, ad esempio, quando
ci si interroga chi debba fare il primo passo, se lo deve fare chi ospita o chi viene
ospitato … R. – Noi siamo spesso abituati ad avere come paradigma
di riferimento quello della competizione, o per meglio dire: quello del ‘mors tua,
vita mea’, cioè pensiamo in termini di torta. Esiste una torta, ce ne sono dieci fette,
se io me ne accaparro otto è meglio che accaparrarmene cinque. Se riuscissimo a liberarci
da questo paradigma culturale e ragionassimo in una logica di ‘vita tua, vita mea’,
sicuramente ci toglieremmo anche le domande su chi deve cominciare per primo. Io credo
che, indipendentemente, da qualche parte occorre incominciare. Poi, anche la cooperazione
è contagiosa, così come la competizione. D. – Professore, ma
quanto la diversità culturale oggi è percepita come un valore? R.
– Nei dépliant turistici si valorizza la diversità; credo che profondamente, nei comportamenti
e magari anche in alcuni atteggiamenti ahimé si faccia molto, invece, per considerare
la diversità culturale come un disvalore, cioè quella voglia di omologare che un certo
modello di globalizzazione ha portato nell’economia, indirizza anche verso un’idea
di omologare la cultura. D. – E guardando la storia, lo scambio
culturale è qualcosa che da sempre ha connotato la società umana; ma ha mai costituito
un rischio? R. – Potrei dire, i rischi e le opportunità sono
sempre presenti. Il rischio dell’annientamento o della vittoria di qualcuno sugli
altri, c’è sempre. Però, è anche vero che tendenzialmente la storia – non abbiamo
controprove – ci ha insegnato che dagli incontri tra le culture sono nati soprattutto
degli esempi, in tutti i campi. molto molto positivi. Però, non dev’esserci il rischio
di un problema che non sappiamo, a frenarci verso l’incontro e la valorizzazione di
diversità culturali.