Intervista a don Massimo Serretti a conclusione dei suoi commenti al Vangelo della
Domenica
Ci ha guidato per tre anni nell’ascolto del Vangelo della Domenica: don Massimo Serretti,
docente di Dogmatica alla Pontificia Università Lateranense, ha concluso - per la
Radio Vaticana - il ciclo triennale di commento alla Parola della Liturgia domenicale.
Da domani ascolteremo le riflessioni del padre carmelitano Bruno Secondìn, professore
di Teologia spirituale alla Pontificia Università Gregoriana. A don Massimo Serretti
va il nostro più sentito ringraziamento per la sua collaborazione. Oggi è ancora
ai nostri microfoni. Sergio Centofanti gli ha chiesto come leggere il Vangelo
perché diventi vita vissuta:
R. – La Parola
di Dio, di per sé, è una parola viva: “Le mie parole sono Spirito e vita”; e dunque,
credo che si tratti soprattutto di accostarcisi in maniera veritiera, perché quando
questo avviene non si pone il problema della traduzione nella vita. E dunque, non
si tratta di “impadronirsi” della Parola di Dio per poi tradurla nella vita, ma si
tratta piuttosto di lasciarsi prendere, di lasciarsi invadere dalla infinità di questa
Parola di Dio.
D. – Il Papa, recentemente, ha ribadito
che la fede non è un moralismo. Cosa significa nel contesto della lettura, dell’interpretazione
della Bibbia?
R. – La fede di per sé è una virtù
teologale, quindi è un’opera dello Spirito in noi. Il moralismo rappresenta una riduzione
gravissima della vita cristiana, in quanto – appunto – ritiene di poter ridurre ad
uno schema quello che in realtà non è uno schema ma è una sequela di una Persona.
Perché poi la differenza tra lo schema moralistico e la sequela della Persona è data
proprio dalla diversità totale della dinamica che in queste due situazioni si viene
a definire. La sequela di una persona non può mai essere schematica, proprio perché
è sequela di un altro. Se uno segue con verità, in verità, Gesù Cristo non può mai
sapere dove Gesù Cristo in quel momento e in quella data situazione lo condurrà; se
uno lo sa – e il moralista lo sa – non sta seguendo Gesù Cristo: sta seguendo un ideale
religioso o una religiosità o una schematizzazione di quello che Gesù Cristo ha detto
e sta prendendo Gesù Cristo – come facevano gli illuministi della prima e della seconda
ora – come un maestro di morale.
D. – Quali sono
i principali rischi da evitare nell’affrontare le Scritture?
R.
– Per rispondere alla domanda che lei pone, bisognerebbe ripercorrere un po’ la vicenda
che nella Chiesa cattolica si è verificata dal Vaticano II – dalla “Dei Verbum” –
fino ad oggi; lo scenario presenta luci ed ombre: presenta delle luci, perché c’è
stata una grande riscoperta della Parola di Dio, quindi della Sacra Scrittura. Insieme
a questo sono ancora presenti sul campo alcune forme di riduzione, di biblicismo,
di logocentrismo, che sono riduttive proprio perché non tengono presenti le tre grandi
dimensioni cattoliche: Magistero, Tradizione e Scritture, e quindi isolano la Scrittura.
Quando la Scrittura si isola – “sola Scriptura” – la Scrittura diventa sola, cioè
diventa solitaria e quindi assume contorni che non sono di esaltazione maggiore della
Scrittura, ma di perdita di valore e di vita. Quindi, si tratta di intendere la Parola
quale è: cioè parola pronunciata da un soggetto e che rimanda a quel soggetto. La
Parola di Dio è importante perché è di Dio, quindi rimanda a Dio. La feticizzazione
della Parola annulla il significato della Parola stessa, che è quello di rispondere
a Colui che questa Parola ha pronunciato. Dice Agostino che tutta la Sacra Scrittura
è una lettera d’amore di Dio all’umanità. E nella lettera d’amore, l’amato – colui
che la riceve – non si attacca alla lettera, ma tiene la grande preziosità della lettera
in riferimento a Colui che l’ha spedita. E quindi serve – la lettera – per legarsi
di più a Dio.