Offensiva in Afghanistan: la Nato controlla il Sud
Gran parte dell'area meridionale dell’Afghanistan, interessata dall’operazione militare
congiunta tra Nato ed esercito di Kabul e denominata ''Mushtarak'', è ora sotto il
controllo delle forze della coalizione. L'azione, scattata la scorsa settimana, è
la prima grande prova della strategia voluta dal presidente degli Stati Uniti Barack
Obama per stroncare l'insurrezione dei talebani e per porre fine al conflitto, che
ormai dura da oltre 8 anni. Quindicimila sono i soldati impegnati in queste ore nei
distretti di Marjah e Nad Ali, nella provincia di Helmand. L’offensiva, che ha provocato
anche 12 vittime tra i civili, uccisi per errore da due missili che hanno mancato
l'obiettivo, mira a piegare i militanti islamici e a spianare la strada alla sovranità
afghana, le cui autorità si sono dette pronte a prendere il controllo delle istituzioni
e della sicurezza. Sulla situazione in Afghanistan, Giada Aquilino ha intervistato
il prof. Marco Lombardi, responsabile dei progetti educativi in Afghanistan
dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano:
R. – La situazione
è a macchia di leopardo. L’offensiva della coalizione di questi giorni è a Sud, verso
Lashkar Gah, a Marjah e Nad Ali. Si tratta di una zona che da tempo
era sotto il controllo talebano o lontana dal controllo dell’Isaf. Ci si poteva aspettare
un intervento in questo periodo: le condizioni climatiche dell’Afghanistan ciclicamente
distribuiscono le opportunità di guerra tra l’una e l’altra parte. Per i talebani,
in questo momento, attaccare le forze è molto difficile perché fa freddo, c’è neve,
le strade non sono percorribili; per le truppe Isaf può essere un momento, invece,
di contrattacco abbastanza "interessante". Qui siamo proprio nella zona meridionale
dell’Afghanistan, quella in cui ci sono anche infiltrazioni dai Paesi vicini o di
supporto dei Paesi vicini alle forze talebane, che sono decisamente consistenti. D.
– A che punto è, invece, il dialogo con i talebani moderati, tanto auspicato dalla
comunità internazionale? R. – Credo che la scelta intrapresa,
quella di parlare con i talebani moderati, sia opportuna. E’ una scelta difficile,
osteggiata dentro e fuori l’Afghanistan, ma in qualche modo rappresenta una via obbligata.
L’Afghanistan è frammentato in centinaia di tribù, ciascuna delle quali con propri
interessi e lingue, attraversate da confini statali che non hanno un loro senso nella
logica tribale. Tutto questo, evidentemente, entra in gioco ed è di interesse afghano.
Ma è anche interesse dei Paesi della coalizione far sì che l’Afghanistan non diventi
– o non rimanga – un santuario non diciamo “del terrorismo”, che è complicato, ma
per esempio della droga, del traffico illecito, della corruzione. Quindi, è necessario
dialogare con i talebani moderati e per i talebani moderati è necessario dialogare
con l’esterno. Purtroppo le regole del dialogo – questo è il problema! – sono ancora
tutte da inventare. D. – Quindi, che cosa serve oggi all’Afghanistan,
a più di otto anni dall’inizio della guerra? R. – Al di là del
rispondere “la pace”, direi un impegno forte e chiaro da parte del governo afghano
a voler collaborare e a dimostrarsi disponibile a farlo con l’Occidente; e da parte
dei talebani moderati una volontà ad aprirsi a questo dialogo. E, inoltre, la disponibilità
da parte dei Paesi che girano attorno all’Afghanistan, a far sì che l’Afghanistan
trovi la propria via. Non dimentichiamo che attorno c’è tutta l’Asia centrale e poi
ci sono il Pakistan e l’Iran e nella zona ci sono pure gli americani i Paesi impegnati
nella missione Isaf. Purtroppo, l’Afghanistan diventa anche il crocevia di interessi
che superano di gran lunga i suoi confini.