Entra nel vivo il 60.mo Festival del Cinema di Berlino
La politica, la guerra, la follia, la poesia, l’irresistibile ala della giovinezza:
toccando tutti questi temi con più o meno sensibilità, con più o meno ispirazione,
con più o meno bravura, quattro film hanno improvvisamente animato il concorso internazionale
del 60.mo Festival di Berlino. La rievocazione di uno dei momenti alti della controcultura
americana, contenuta in “Howl” di Rob Epstein e Jeffrey Friedman, francamente delude
perché, nonostante il peso vitalizzante del materiale d’archivio, compie sostanzialmente
un’operazione didascalica nei confronti della poesia di Allen Ginsberg. Lo stesso
non si può dire per “The Ghostwriter” di Roman Polanski. Il regista polacco, sempre
a suo agio nelle storie complesse che, dietro apparenze felici nascondono segreti
innominabili, si cimenta qui in un intrigo internazionale dal sapore decisamente hitchockiano,
dove uno scrittore, chiamato a lavorare sulle memorie di un uomo politico, finisce
per scoprire gli scheletri nell’armadio di un’intera nazione. Non diversamente dal
protagonista di “The Ghostwriter”, l’eroe di “Shutter Island” si muove in un mondo
di fantasmi. Ma se quelli che abitano il film di Polanski sono i riflessi della politica
internazionale, gli spettri che si aggirano nel film di Martin Scorsese sono soprattutto
il frutto di una serie di traumi, tragedie della guerra e della vita civile che scatenano
nella mente di un uomo pulsioni irrimediabilmente violente. Girato in uno stile che
ricorda il cinema classico, di cui il regista si è nutrito dall’adolescenza; segnato
da una fotografia contrastata dai toni scuri e pastosi; solcato da interpretazioni
che fanno leva sul mistero e l’ambiguità, “Shutter Island” intriga e appassiona, lasciando
lo spettatore sotto tensione per tutta la sua durata. Colpisce, emoziona e commuove
anche l’opera prima rumena “If I Want to Whistle I Whistle” di Florin Serban, ritratto
di un giovane criminale rumeno, chiuso fra una famiglia distrutta e un destino violento;
ma qui ciò che impressiona non è tanto l’intreccio narrativo quanto la capacità di
fare parlare i corpi degli attori, tesi a dire con i loro volti, con la loro energia
nervosa, con la loro goffa tenerezza, il disagio di una società che il consumismo
ha prosciugato dei suoi valori, sacrificando al benessere la sua anima contadina.
(A cura di Luciano Barisone)