Il prof. Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, commenta la "Caritas in veritate"
A poco più di sei mesi dalla pubblicazione della "Caritas in veritate" di Benedetto
XVI, il prof. Ettore Gotti Tedeschi, presidente dello Ior, traccia un bilancio
dell'Enciclica per il settimanale "Octava Dies" del Centro Televisivo Vaticano. Nell'intervista
di Alessandro Di Bussolo, l'economista spiega come è stato accolta l'Enciclica
negli ambienti della finanza, dell'impresa, della politica e della ricerca economica:
R.
– E’ stata accolta bene, in un coro di compiacimento. Merita, però, una considerazione:
tutte le volte che nel nostro mondo ci sono dei problemi gravi – in questo caso una
grande crisi economica che stanno subendo tutti, la stanno subendo gli Stati, la stanno
subendo le istituzioni politiche, le istituzioni finanziarie e industriali, la stanno
subendo le famiglie e i cittadini – tutti invocano l’esigenza di etica. All’unisono
l’etica diventa l’elemento scarso in natura, quando ci sono dei problemi, per cui
tutti si sono molto complimentati con questa Enciclica, tutti hanno esaltato l’importanza
e il richiamo di questa Enciclica ad un bisogno di etica, interpretandolo poi in vari
modi. Come lei sa, l’’Enciclica richiama l’etica in momenti ben precisi e con considerazioni
estremamente precise. Alla fine, però, tutti coloro che naturalmente non hanno letto
l’Enciclica sono d’accordo nel dire che l’Enciclica richiama ad un bisogno di etica.
In realtà, vedrà che finita la crisi – se è vero che sta finendo, cosa di qualche
dubbio – si parlerà sempre meno sia di etica che di Enciclica. In realtà, chissà perché
la mancanza di etica noi la vediamo sempre nel nostro vicino, ne parliamo, facciamo
corsi di etica, facciamo definizioni di etica, di strumenti di etica (la Banca Etica,
il Fondo Etico), dimenticandoci che l’etica si deve prima di tutto vivere, piuttosto
che insegnare. Bisogna dimostrarla, bisogna dimostrare cosa vuol dire comportamento
etico.
D. - Gli ultimi interventi del presidente
statunitense Obama contro il gigantismo delle banche, il ritorno dei superbonus ai
manager. Lei crede che le opportunità di cambiamento legate alla crisi non sono state
colte o c’è ancora tempo per recuperare i principi dell’etica sociale nell’economia?
R.
– Anzitutto ritengo che si sia esagerato nell’incolpare i banchieri e i finanzieri
dell’origine della crisi. L’origine della crisi non è nelle banche e nella finanza.
Le banche e la finanza hanno concorso ad aggravare la crisi nelle sue origini, cercando
di compensare dei problemi che erano stati generati precedentemente e cioè il crollo
dello sviluppo economico, che si è cercato di camuffare attraverso l’uso di strumenti
finanziari. Se posso addirittura, quindi, essere molto polemico, dirò che più che
i banchieri hanno avuto responsabilità alcuni governanti, che hanno stimolato, supportato
e giustificato quell’espansione creditizia che venne utilizzata per sostenere un tasso
di crescita che è stato riconosciuto essere fittizio. Adesso ci troviamo, però, di
fronte ad un maggior problema, del quale sentiremo parlare per molto tempo. In termini
tecnici viene chiamato dell’“averaging”, che tradotto in italiano significa “sgonfiamento
del debito”. Negli ultimi dieci anni, anche in Italia e negli Stati Uniti e in media
in tutto il mondo occidentale, l’impatto percentuale del debito totale sui prodotti
interni lordi - sul Pil - è passato da circa un 200 per cento ad un 300 per cento:
è aumentato, quindi, di circa un 30 per cento. Questo gonfiamento artificiale di debito
– con debito intendo, debito dei governi – è differente tra Paese e Paese; in Italia
è più alto il debito del governo e addirittura quasi pochissimo il debito da parte
delle famiglie; negli Stati Uniti è altissimo l’indebitamento delle famiglie, basso
il debito del governo – e quindi il debito totale dei governi, delle famiglie, delle
istituzioni finanziarie e delle istituzioni non finanziarie e di quelle industriali,
oggi deve essere sgonfiato. Sgonfiamento vuol dire che prenderà fra i 5 e i 7 anni,
in Paesi maturi come l’Europa e gli Stati Uniti, per potersi ridimensionare, per poter
ritornare a dei criteri accettabili. Questo significa che per 5-7 anni abbiamo di
fronte a noi delle scelte di strategia economico-finanziaria che non sono molto eccitanti.
Nel senso che se non vogliamo dichiarare alcune bancarotte - e qualche piccolo Stato
può poterla dichiarare - non dimentichiamo l’Argentina; se non vogliamo inflazionare
questo debito e, quindi, ridurlo attraverso una accelerazione dell’inflazione, che
penalizzerebbe tutti; se non abbiamo grandi opportunità di shock, come qualche economista
o banchiere ogni tanto richiama -non vedo quali shock potremmo avere, forse le biotecnologie
o una nuova Silicon Valley – c’è soltanto un modo per ricostituire un equilibrio economico-finanziario,
che si chiama austerità.
D. – Quindi ha fatto
riferimento a questo problema della crescita stimolata eccessivamente ed anche artificialmente.
Il Papa, nell’Enciclica, dice che non c’è vera crescita se crolla la natalità e manca
il rispetto per la vita, ricordando che non si può considerare “l’aumento della popolazione
come causa prima del sottosviluppo”. Si può dire allora che la crisi sia frutto di
una crescita drogata e non più sostenibile con questi bassi livelli di natalità?
R.
– L’origine vera della crisi - io personalmente su questo non ho dubbi – è il crollo
della natalità nei Paesi occidentali. Negli anni ’75 le teorie cosiddette dei neo-malthusiani
predissero che se il tasso di popolazione fosse continuano a crescere come era cresciuto
negli ultimi anni – intorno cioè al 4-4.5 per cento - prima del Duemila, milioni di
persone sarebbero morte di fame, soprattutto in Asia e in India. Questo già la dice
lunga sulle capacità previsionali che riguardano l’uomo fatte da sedicenti sociologi-economisti.
Ben ha fatto il Papa, qualche domenica fa, quando ha richiamato gli economisti e quelli
che hanno tendenza ed attitudine a fare previsioni a lungo termine, che provocano
poi decisioni che probabilmente fanno peggio delle supposte previsioni. Meglio hanno
previsto negli ultimi cinquant’anni, anzi cent’anni – se vuole – i grandi romanzieri
come Giulio Verne o Herbert G. Wells, piuttosto che non tanti economisti. Che cosa
è successo allora quando nel mondo occidentale c’è stato il crollo della natalità
mentre nel mondo cosiddetto emergente o Terzo, Quarto mondo, siccome non sapevano
leggere i libri sulla bomba demografica, hanno continuato tranquillamente a far figli,
hanno anzi migliorato le loro condizioni di vita grazie alla sanità, alla migliore
alimentazione e così via? Nel mondo occidentale, invece, il tasso di sviluppo della
popolazione crolla, da un 4-4.5 per cento degli anni ’75, ad uno zero per cento. Lo
zero per cento di tasso di crescita della popolazione non vuol dire che non si fanno
figli, ma vuol dire che si fanno 2 figli a coppia. Allora cosa succede se la popolazione
non cresce? Teoricamente la popolazione deve accettare una austerità, che è legata
al fatto che non nascendo le persone - non è che restando uguale il numero della popolazione,
resta inalterata anche la sua struttura - la sua struttura cambia. E questo perché
crollando le nascite, ci sono meno persone giovani che entrano nel mondo del lavoro
produttivamente e ci sono molte più persone anziane che escono dal sistema produttivo
e diventano un costo per la collettività. In pratica: se la popolazione non cresce,
i costi fissi di questa struttura economica e sociale aumentano, quanto drammaticamente
dipende da quanto è evidentemente squilibrata la struttura della popolazione e quant’è
la sua ricchezza. I costi fissi però aumentano: aumentano i costi della sanità e aumentano
i costi sociali. Non solo: non si possono più diminuire le tasse. Da sempre, dagli
ultimi trent’anni, noi sentiamo dire dai nuovi governi che diminuiranno le tasse e
mai sono state diminuite. Perché? Perché non si può; perché la struttura di una crescita
zero impedisce di poter diminuire le tasse, senza far aumentare esponenzialmente i
costi. C’è poi un altro fenomeno che impatta grazie al non tasso di crescita delle
popolazione nell’economia, ed è il crollo del risparmio. I giovani che non hanno lavoro
spostano il ciclo di accumulazione del risparmio di anni; le famiglie non si formano;
molto spesso non si formano famiglie con un certo numero di impegni nei confronti
dei figli, cosicché il risparmio si estingue. Ci sono meno attività finanziarie sul
mercato, che vengono intermediate dal sistema bancario. Il denaro, quindi, costa di
più e ce ne è meno. Si devono così inventare i prodotti derivati. A questo punto quando
il crollo dello sviluppo del mondo occidentale è dovuto alla non natalità diventa
un fatto preoccupante. Ci si inventa il tentativo di compensare questo crollo dello
sviluppo attraverso attività finanziarie e quindi anzitutto con la delocalizzazione
– si cerca di trasferire tutte quelle produzioni in Asia, per riportarle al nostro
interno a costi minori; e con una maggior produttività, ma la maggior produttività
ha dei limiti. E’ come se per lei la maggior produttività personale della sua famiglia
consistesse nel fare lo straordinario: lei può fare un 10 per cento in più del suo
lavoro normale e delle sue attività, può fare un 20 per cento in più, ma più di quello
non può andare perché ha una soglia minima fisica e vitale oltre alla quale lei non
può andare. Conseguentemente come può aumentare il suo prodotto interno lordo o tenerlo
sufficientemente in piedi per una economia che invece sta crollando? Può fare gli
straordinari – come dicevamo prima – o può mandare sua moglie a comprare i prodotti
della vostra famiglia al supermercato-discount per cercare di spendere meno, ma poi
ha un solo mezzo, quello di indebitarsi. Il sistema incomincia a crescere grazie all’indebitamento
delle famiglie. Chiunque può aumentare il suo prodotto interno lordo. Se io ho un
prodotto interno lordo di 100 e voglio andare a 120-130, questo è facilissimo se una
banca mi finanzia per 20 o per 30. Ma quello è un prodotto interno lordo non sostenibile
sul lungo termine, perché io devo garantire di poterlo pagare. Le faccio un esempio:
negli ultimi 10 anni, il tasso di indebitamento delle famiglie americane, già abbastanza
alto (che era il 68 per cento del prodotto interno lordo nel 1998 circa) dal 68 per
cento passa nel 2008 al 96 per cento del prodotto interno lordo, aumenta cioè di 28
punti. Se lei prende 28 punti percentuali di crescita su 10 anni e lo divide per 10
anni, ha una media del tasso di crescita del 2.8 per cento all’anno dovuto esclusivamente
al consumismo a debito delle famiglie americane. In pratica, questa è stata l’origine
della crisi, fino poi ad arrivare agli eccessi dei cosiddetti subprime. L’origine
per cui lo strumento finanziario, la leva a debito, l’espansione del credito è stata
fatta è per compensare il tasso di crescita dello sviluppo dell’economia legato al
fatto che non nascevano figli.
D. – Nella sua
enciclica, Benedetto XVI insiste sulla necessità di guidare la globalizzazione, con
un “orientamento culturale personalista e comunitario”, chiedendo di istituire “un
grado superiore di ordinamento internazionale”. Sono obiettivi che possono entrare
presto nell’agenda politica mondiale?
R.
– La risposta è sì. Per il Santo Padre il futuro è sempre legato ad un addendo in
più che a noi scappa, che è la grazia, che fa sì che l’uomo faccia miracoli, se così
posso dire. Però vediamo qual è il problema. Noi non dobbiamo considerare la globalizzazione
un fine, la globalizzazione è un mezzo ed un mezzo molto opportuno per globalizzare
il bene, per globalizzare i valori che si hanno, che permettono all’uomo di avere
uno sviluppo integrale. Quindi, anzitutto, la globalizzazione è un mezzo. La globalizzazione
per essere effettiva deve avere un fine, come qualsiasi mezzo. Non esiste un mezzo
che di per sé sia buono. Neanche un ospedale, neanche una clinica di per sé è buona:
è funzione di chi la gestisce decidere cosa farle fare. Quindi, un mezzo non è mai
buono o cattivo, un mezzo è neutrale per definizione. Ma per dare un senso all’uso
di un mezzo, l’uomo deve avere idee forti, deve avere un pensiero forte. Altrimenti,
se l’uomo non ha un pensiero forte che lo aiuti a capire cosa vuol dire dare un senso
ad uno strumento delle dimensioni e dell’importanza della globalizzazione, finirà
che la globalizzazione si impossesserà dello stesso pensiero. Se non è il pensiero
a determinare il comportamento, sarà il comportamento ad influenzare il pensiero.
Perché non è facile? Perché noi stiamo globalizzando varie culture, molto diverse.
Prendiamo le tre grandi aree, prescindo poi da quelle minori. La grande area nord
americana, da un punto di vista della cultura è protestante americana, molto liberal,
molto aperta, molto liberista, molto determinata, però con una capacità di comportamento
che ogni tanto può sorprendere noi europei, che siamo sempre abituati a domandarci
se quello che facciamo è bene o è male, magari perdendo anche un po’ tempo. Loro magari
esagerano un poco nell’attivismo, nel decisionismo, per poi pentirsi successivamente.
Quindi, già il modello americano ha una visione culturale di come si fanno le cose
che non è quello europeo. Quello europeo, in linea di massima, è poco sostenuto da
noi stessi europei, che addirittura ci sviliamo, da un certo punto di vista sviliamo
le nostre radici, quello in cui crediamo. L’Europa in questo momento è in una situazione
completamente diversa, anche nei confronti di una crisi economica. Prima di tutto
è divisa e ha visioni completamente diverse di come si fanno le cose. Leggevo sul
giornale di Sarkozy, che dice “Sull’immigrazione non faremo gli errori che ha fatto
l’Italia”. Già questo ce la dice lunga su come l’Europa potrà stabilire insieme una
politica di immigrazione. Andiamo all’Asia: pensiamo soltanto che in Asia abbiamo
già una Cina e un’India, che sono dominanti. Che cultura religiosa ha la Cina? Io
ho un figlio che da tre anni è in Cina, fa l’economista, e che ogni tanto mi permette
di capire qualcosa di più. Lei sa certamente, avrà riflettuto sul fatto che il comportamento
economico di un soggetto che sia banchiere, industriale, uomo politico, economista,
non è soltanto legato agli studi che ha fatto, asettici, neutrali, ma è funzione anche
dell’educazione che ha avuto. Qual è l’educazione cinese? C’è un po’ di confucianesimo,
un po’ di buddismo e un po’ di maoismo, mixato tutto insieme. Allora, cos’è per loro
dire la verità, mantenere la parola, il senso del dovere, il senso dell’obbedienza?
E’ il nostro? Non lo so. E poi ci sono due Paesi emergenti - l’America Latina la lascerei
da parte – ma ce n’è uno che preoccupa di più, in questo scenario internazionale,
che è l’Africa. L’Africa che noi ex colonialisti europei abbiamo sempre disdegnato,
l’abbiamo sempre considerata un qualcosa da utilizzare secondo l’occorrenza, per poi
aiutarla anche a crescere, perché gran parte della crescita intellettuale dell’Africa
è dovuta al fatto che il buon colonialismo europeo ha dato anche tanti valori: i Paesi
che sono stati colonizzati sono quelli che si sono evoluti prima, senza nessun dubbio.
Però oggi l’Africa sta per essere conquistata dai cinesi, da due punti di vista: come
risorse e materie prime e come manodopera. L’africano sta diventando la manodopera
a basso costo del cinese. Ma il cinese ha la stessa visione dell’uomo che abbiamo
noi? Queste sono le grandi domande, che secondo me il Pontefice si sta ponendo. Ecco
perché è preoccupato, in un processo di globalizzazione, di quali siano i valori dell’uomo.
Oggi c’è una sola grande ed unica autorità morale, che continua a richiamare, per
tutti e in tutte le condizioni, il valore dell’uomo: il Papa della Santa Chiesa cattolica
apostolica romana. Io non ne conosco nessun altro.
D.
– Per sostenere lo sviluppo dell’intera famiglia umana, Benedetto XVI fa riferimento
al principio di sussidiarietà, e all’”autonomia dei corpi intermedi”, bocciando invece
le forme di “assistenzialismo paternalista”. E’ un modello che si sta affermando o
c’è ancora molto da fare nella gestione degli aiuti internazionali?
R.
– Senta, il modello assistenzialistico, paternalistico come lo chiama lei, non aiuta
l’uomo a crescere, non gli dà le motivazioni per svilupparsi, per rafforzarsi, per
rendersi indipendente. E’ come la cultura del “know why” e del “know how”. Il “know
why” è il sapere perché: se l’uomo capisce il perché e impara a gestire la sua vita,
fa le cose. Se uno impara soltanto il come, al massimo può fare quello che ha imparato
a fare il come. La cultura classica europea è sempre stata quella del “know how why”:
sapere perché, prima di sapere come. Questo è un punto essenziale in questo ragionamento.
Il secondo punto è la sussidiarietà. Ci sono due tipi di sussidiarietà, che secondo
me il Pontefice delinea nella stessa enciclica. Il primo è la sussidiarietà dell’individuo
verso lo Stato. Un caso tipico è la situazione americana. Gli americani sono stati
utilizzati per 15 anni per sostenere a debito la crescita del prodotto interno lordo
americano che vacillava. E gli Stati Uniti, come sappiamo, hanno avuto anche dei periodi
complessi - pensiamo all’11 settembre del 2001 - dovendo ricostruire un atteggiamento
nei confronti del terrorismo, come grandi guardiani dell’umanità, probabilmente aumentando
notevolmente le loro spese anche di difesa, e le spese si pagano. Ecco l’esigenza
di una crescita del pil. Una spesa forte nella difesa, per gli armamenti, dopo l’11
settembre, che è aumentata negli anni successivi con tassi del 14, 15 per cento all’anno,
deve essere sostenuta dalla crescita di un prodotto interno lordo. Da qui l’esigenza
di far crescere il prodotto interno lordo. E come si fa a farlo crescere? Ecco l’abitudine
americana: si lascia la libertà nell’individuo di farlo; lo si mette in condizione
di farlo: tassi bassi e attrattiva per una forma di consumismo. Dopo 10 anni le famiglie
americane sono diventate povere, hanno perso una grande parte dei loro investimenti
liquidi, hanno perso una gran parte del valore della loro casa, che non hanno ancora
pagato, hanno perso una parte del fondo pensione, che è privato notoriamente, si sono
indebitate per due o tre anni e rischiano di perdere il posto di lavoro. In pratica,
le famiglie sono entrate sussidiarie all’esigenza di crescita dello Stato. Ecco la
sussidiarietà negativa, la sussidiarietà contraria a quello che dovrebbe essere, realizzando
il sogno di John Fitzgerald Kennedy, cattolico, che diceva: “Cittadino americano,
non stare a pensare a quello che lo Stato può fare per te, ma a quello che tu puoi
fare per lo Stato”. Qualche decennio dopo lo abbiamo visto che cosa ha fatto il cittadino
per fare qualcosa per lo Stato: si è indebitato, diventando più vulnerabile e più
debole. Poi c’è una seconda sussidiarietà pericolosa, quella dei Paesi del terzo mondo,
che sono utilizzati, ogni tanto anche gestiti, in modo tale da poter avere dei vantaggi
nei loro confronti – le materie prime, il problema della manodopera – dimenticandosi
completamente di loro, quando questi vantaggi non sono più gestibili, utilizzabili.
Ecco, queste sono le due sussidiarietà che in questo mondo, in questo momento, stiamo
affrontando e vedendo. Non dimentichiamocelo, in gioco non c’è soltanto un equilibrio
economico, di ripresa economica, che sarà lunga e difficile, ma in gioco c’è “che
cosa farà il cittadino per questo?”. Vi faccio un esempio. L’Italia è un Paese che
ha alcune grandi risorse per fronteggiare una strategia nei confronti della crisi:
per esempio, le sue piccole e medie imprese, il risparmio degli italiani. Io temo
che questo risparmio possa essere portato a tradursi in consumi, quando il risparmio
sappiamo che invece è la protezione di un individuo, della sua famiglia, delle sue
scelte. Invece di stimolare le famiglie e la società a ricominciare a credere nel
futuro e a fare figli - perché noi non facciamo figli, noi facciamo meno figli del
tasso di sostituzione, infastidendoci poi dei progetti di immigrazione che ci danno
fastidio - abbiamo smesso di far figli e abbiamo creato una situazione, un contesto
economico negativo di decrescita, e decrescita vuol dire maggior austerità. Ma noi
non vogliamo essere più austeri nel nostro stile di vita, noi non vogliamo la sobrietà.
La sobrietà non la cerchiamo e se per caso si avvicina la fuggiamo.
D.
– Sussidiarietà, però, il Papa la usa anche in termine positivo…
La
sussidiarietà dello Stato verso il cittadino: è il cittadino, la famiglia, a cui il
resto deve essere sussidiario, non viceversa. Invece la mia impressione, dappertutto,
in molte nazioni, e sono poche le nazioni in cui non l’ho visto - anche nella grande
nazione americana, che è stata sempre il grande simbolo della libertà, del liberismo
– abbiamo visto che la famiglia e l’individuo sono stati sussidiari alla crescita,
al bisogno di crescita dello Stato, per compensare un’esigenza di maggior crescita
del proprio prodotto interno lordo. Guardi 20 anni fa l’America e guardi l’Asia, già
nel processo di globalizzazione: l’America cresce del tasso del 3 per cento, l’Asia
dell’8, del 9, del 10, 14, 15 per cento. Cosa dice l’economista della geopolitica?
Dice che fra dieci anni l’America è cresciuta dell’80 per cento e l’Asia del 300 per
cento. Chi gestirà il potere fra dieci anni? Il problema si pone ed è anche un problema
di carattere geopolitico, non soltanto economico. La competizione fra gli Stati è
anche questa: la popolazione è ricchezza. I neo-malthusiani dicevano che in Cina e
in India sarebbero morte di fame milioni di persone. La Cina e l’India sono entrate
nel ciclo economico dello sviluppo, sono diventate players, attori importantissimi
nella produzione, nei consumi e nella generazione di ricchezze finanziarie, tanto
che oggi soltanto la Cina ha quasi tra il 35 e il 40 per cento del debito pubblico
americano. Quindi, non soltanto si sono sviluppate e hanno creato benessere, che si
sta diffondendo piano, piano, ma sostengono persino le nostre economie mature che
stavano crollando. Fra dieci anni la Cina dominerà il mondo. E’ bene o è male? L’unico
problema è che quando si domina il mondo economicamente si esportano e si divulgano
anche le proprie culture, il proprio pensiero. La mia domanda aperta è: qual è la
cultura cinese che noi importeremo nei prossimi dieci anni? Qual è il pensiero? Quali
sono i valori che verranno esportati? Queste sono le domande che ci si pone.