La Chiesa ricorda don Andrea Santoro: le testimonianze di mons. Padovese e mons. Di
Tora
Proseguono le celebrazioni per ricordare la figura di don Andrea Santoro, il sacerdote
fidei donum ucciso quattro anni fa nella chiesa di Santa Maria a Trabzon, in
Turchia. Ieri la veglia di preghiera presieduta dal vescovo ausiliare del settore
est di Roma, mons. Giuseppe Marciante. Questa sera il vescovo ausiliare del settore
nord della capitale, mons. Guerino Di Tora, celebrerà la Messa nella parrocchia
romana di Gesù di Nazareth. Davide Dionisi ha chiesto all’ex direttore della
Caritas diocesana quale eredità ha lasciato don Andrea:
R. – L’eredità
che ci lascia è quella di una coerenza di testimonianza nel silenzio di quello in
cui lui credeva profondamente: il riportare l’idea del cristianesimo in quelli che
erano i luoghi dove la cristianità è nata, le Chiese dell’Apocalisse, la Turchia,
le comunità evangelizzate da San Paolo, e riportarlo dove oggi è abbastanza dimenticato.
D.
– Quanto è attuale il messaggio di don Andrea?
R. – L’attualità è quella
di riportare la presenza cristiana in ogni luogo: nei nostri luoghi di lavoro, negli
ambienti che frequentiamo, nelle scuole. Quindi, questa idea di poter e voler riportare
una presenza di testimonianza cristiana nel luogo dove la Divina Provvidenza ci ha
fatto trovare.
La testimonianza di don Santoro in Turchia ha aggiunto
un ulteriore tassello a quello che è l’impegno della Chiesa locale sul fronte del
dialogo e del confronto pacifico tra le varie religioni. Il sacrificio del missionario
nella testimonianza di mons. Luigi Padovese, vicario
apostolico in Anatolia:
R. - Mi piace rilevare che sia stato ucciso
come simbolo, come realtà di sacerdote cattolico. Non è stata uccisa soltanto la persona,
ma si è voluto colpire il simbolo che la persona rappresentava: ricordarlo in questo
momento, all’interno dell’anno dedicato ai sacerdoti, è quanto mai significativo,
per ricordare a tutti noi che la sequela di Cristo può arrivare anche all’offerta
del proprio sangue.
D. – A che punto è il dialogo in Turchia, mons.
Padovese?
R. – Il dialogo in Turchia, segue momenti alterni. Ci sono
tante espressioni di buona volontà da parte anche delle autorità. Si intende il dialogo
con la parte civile. Devo dire però che effetti vistosi di questo dialogo ancora non
se ne vedono tanti. Un buon rapporto si è creato con il nuovo ambasciatore di Turchia
presso la Santa Sede, anche con alcune autorità locali, ci sono attestazioni di volontà
di collaborazione. Ecco su questo punto devo dire che i segni ci sono. Per quello
che riguarda poi certe richieste concrete che sono state fatte, come ad esempio la
Chiesa di Tarso, ci troviamo in una situazione ancora di stallo.
D.
– Quale è l’impegno della Chiesa, quotidiano e a medio termine, per incentivare il
dialogo?
R. – Abbiamo avuto l’incontro della Conferenza Episcopale turca,
e pensiamo che il dialogo debba innanzitutto partire da una presa di coscienza dei
cristiani stessi in Turchia, cioè essere coscienti della propria identità e di quello
che sono. E’ inutile pensare ad un dialogo con chi non è cristiano, quando non si
è pienamente consapevoli di quello che si è. Quindi buona parte della nostra azione
pastorale quest’anno, è, e sarà concentrata nel rendere i cristiani più consapevoli
della propria identità. A parte questo ci saranno i momenti di incontri a livello
nazionale per i sacerdoti del Paese e i vescovi a Efeso. E’ la prima volta che comunità
cristiane di diversi riti, ci ritroviamo a pregare e a riflettere insieme sulle situazioni
della Chiesa in Turchia. (Montaggio di Maria Brigini)