Nuovo capitolo della vicenda nucleare iraniana. Il presidente Mahmud Ahmadinejad è
intervenuto a sorpresa sulla questione, annunciando che il proprio Paese è pronto
a far arricchire all’estero parte dell’uranio per impieghi atomici, così come proposto
dalle Nazioni Unite. L'Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha fatto
sapere di non aver ricevuto segnali al riguardo da parte di Teheran, proprio mentre
la tv di Stato della Repubblica islamica ha annunciato il lancio di un razzo vettore
per satelliti, il Kavoshgar-3. Sulle nuove dichiarazioni di Ahmadinejad a proposito
dei programmi nucleari del proprio Paese, Giada Aquilino ha intervistato Antonello
Sacchetti, profondo conoscitore della realtà iraniana:
R. – E’ una
dichiarazione sicuramente un po’ a sorpresa, rispetto agli ultimi mesi, perché in
autunno pareva ormai fatta per quell’accordo di arricchimento dell’uranio all’estero.
L’intesa era già stata delineata abbastanza nei dettagli. Poi era saltato tutto, anche
in base alle divisioni interne della Repubblica islamica. Quanto detto ieri da Ahmadinejad
mi sembra anche un suo modo per uscire dall’angolo, in particolare interno al suo
Paese. In questo momento il presidente iraniano è un personaggio isolato, soprattutto
per quanto riguarda il fronte conservatore. I pasdaran e la guida suprema, che poi
secondo la Costituzione è l’artefice della politica estera, lo hanno messo di fatto
in una posizione minoritaria. D. – Questi sono giorni cruciali
per l’Iran con l’anniversario della rivoluzione islamica alle porte, proprio quando
le autorità hanno annunciato altre impiccagioni di oppositori. C’è il pericolo di
nuove tensioni per le strade? R. – Sicuramente. Direi che l’11
febbraio, il 22 bahman secondo il calendario persiano, è uno di quegli
appuntamenti come quello che è stato l’Ashura, cioè il 27 dicembre.
Sarà una giornata di mobilitazione proprio perché, dalla scorsa estate, l’opposizione
interna iraniana sceglie le manifestazioni e gli appuntamenti ufficiali, le ricorrenze
religiose o governative, per manifestare invece il proprio dissenso. E in questo caso
è una ricorrenza carica di significato, perché l’11 febbraio del ’79 viene ricordato
come il giorno in cui la rivoluzione vinse. Quello fu il giorno in cui l’esercito
dichiarò la propria neutralità, mentre lo scià era già scappato il mese prima, in
gennaio. Quindi sarà sicuramente un momento cruciale, anche sulla base di quello che
poi è stato detto nelle ultime ore dal leader dell’opposizione, Mousavi. D.
– Le dichiarazioni di Mousavi a cosa possono portare? R. – Mousavi
ha fatto una dichiarazione forte dicendo che la rivoluzione iraniana non si è mai
compiuta pienamente. Lui ha detto che in Iran rimangono ancora le radici dell’oppressione,
ma anche delle forze che resistono alla tirannia e che allora generarono la rivoluzione.
Lui sembra tracciare un percorso politico che fa riferimento ad una modifica della
Costituzione iraniana, che non è immutabile. Ha ricordato come nell’89 la Costituzione
venne ritoccata in parti anche abbastanza importanti. Sicuramente è un ricompattarsi,
è un rimescolare le carte, è un dare dei punti di appiglio alla propria parte politica.
Dall’altra parte, però, mi sembra che invece l’establishment, soprattutto la guida
suprema, non sia per nulla incline alle aperture. Vorrei pure sottolineare come in
questo contesto la pressione esterna raramente aiuti i fautori del dialogo o le forze
riformiste. In genere quando dall’esterno il Paese viene messo sotto il banco degli
accusati, sono i falchi a prevalere all’interno. Fu così anche quando Bush mise l’Iran
nell’asse del male, nel 2002.