2010-01-23 13:02:00

Proclamato Beato don Josép Samsó Elias: fucilato durante la guerra civile spagnola perché sacerdote, perdonò i suoi assassini


“Il martire cristiano, come Gesù Cristo, non odia e non uccide, ma ama e perdona. Il martire cristiano è un testimone della vita e non della morte”: sono le parole di mons. Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Il presule le ha pronunciate oggi a Matarò, in Spagna, durante la cerimonia di Beatificazione di Josép Samsó Elias, sacerdote e martire. Nato nel 1887, padre Josép fu nominato rettore della parrocchia di Matarò nel 1923. Tredici anni dopo, in una Spagna dilaniata dalla guerra civile, il religioso fu arrestato per il suo status sacerdotale, rimase in carcere per un mese e poi venne fucilato. Ma morì perdonando i suoi assassini. Quale modello di sacerdote rappresenta, dunque, questo nuovo beato? Isabella Piro lo ha chiesto a padre Ramon Julià Saurì, postulatore della causa di beatificazione:RealAudioMP3

R. – Rappresenta un modello di sacerdote attuale: un sacerdote come il Papa ha chiesto nell’Anno Sacerdotale, votato completamente a Dio, a Gesù e agli uomini. Ha saputo identificarsi in Gesù e, come Gesù, ha saputo darsi agli uomini.

 
D. – E non è un caso che la figura del beato Josép è spesso accostata a quella del Curato d’Ars. Cosa accomuna queste due figure?

 
R. – Tutti e due sono stati parroci che si sono dati ad amare i loro fedeli per portare loro questo amore di Dio, per avvicinare Dio agli uomini e far sì che gli uomini si avvicinino alla misericordia di Dio. Tutti e due si sono dati completamente al lavoro pastorale con la confessione, la direzione spirituale, il servizio agli ammalati, ai poveri e così hanno portato l’amore di Dio agli uomini.

 
D. – Il beato Josép visse negli anni Trenta, un momento difficile per la Spagna dilaniata dalla guerra civile. Come riuscì a mantenersi al di sopra dei conflitti politici?

 
R. – Lui, grazie proprio a questo amore, a questa presenza di Dio, alla preghiera che viveva profondamente, ha sentito questa pace interiore. Tutti i testimoni che sono stati in carcere con lui – laici e qualche altro sacerdote – hanno visto la serenità di questa persona che fino all’ultimo momento è andato con questa pace a cercare il Signore, che gli portava il dono del martirio. Ha perdonato – e questa è una cosa che una persona che non vive la presenza di Dio non può fare: perdonare chi ti uccide. È così difficile! … E lui lo ha fatto. Ha detto: “Avvicinatevi, ché vi voglio abbracciare tutti, prima di morire!” …

 
D. – Secondo i vescovi del tempo, il beato Josép era il miglior catechista della diocesi; la sua figura quindi ci insegna l’importanza della catechesi …

 
R. – Certo, certo. Questo ministero della catechesi, dell’annuncio della Buona Novella ai piccoli, ai grandi, ai giovani e agli adulti, lui l’ha vissuto dal primo momento che è stato in parrocchia. Ha dedicato tutta la vita a questo ministero, ha scritto anche la “Guida per i catechisti ed i direttori di catechesi”: lo ha scritto nel ’36, ma fino al ’40 non è stato pubblicato. È veramente un libro che, come qualche vescovo, ha anticipato le idee del Concilio Vaticano II, perché ha fondato la sua catechesi sulla Bibbia, sulla liturgia e sulla vita del popolo, sugli esempi di vita quotidiana. Diceva: “Il catechista deve essere come i genitori: deve amare i ragazzi per poterli educare nella fede”. Se uno non sa amare i ragazzi con questo amore che hanno i genitori, meglio che non faccia catechesi perché insegnerà cultura religiosa, ma non trasmetterà l’amore che la fede ci insegna.

 
D. – Quale eredità ci ha lasciato il beato Josép?

 
R. – Un’eredità molto profonda, molto grande, molto impegnativa: innanzitutto il vivere come Gesù ha vissuto, e da qui parte tutto. E poi il grande spirito di evangelizzazione, il grande spirito di generosità e amore verso gli altri, la donazione agli altri. Questo è molto impegnativo. E credo che se noi dobbiamo seguire i martiri, modelli per tutti noi, questo ci impegna veramente!







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