Proclamato Beato don Josép Samsó Elias: fucilato durante la guerra civile spagnola
perché sacerdote, perdonò i suoi assassini
“Il martire cristiano, come Gesù Cristo, non odia e non uccide, ma ama e perdona.
Il martire cristiano è un testimone della vita e non della morte”: sono le parole
di mons. Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi. Il presule
le ha pronunciate oggi a Matarò, in Spagna, durante la cerimonia di Beatificazione
di Josép Samsó Elias, sacerdote e martire. Nato nel 1887, padre Josép fu nominato
rettore della parrocchia di Matarò nel 1923. Tredici anni dopo, in una Spagna dilaniata
dalla guerra civile, il religioso fu arrestato per il suo status sacerdotale, rimase
in carcere per un mese e poi venne fucilato. Ma morì perdonando i suoi assassini.
Quale modello di sacerdote rappresenta, dunque, questo nuovo beato? Isabella Piro
lo ha chiesto a padre Ramon Julià Saurì, postulatore della causa di beatificazione:
R. – Rappresenta
un modello di sacerdote attuale: un sacerdote come il Papa ha chiesto nell’Anno Sacerdotale,
votato completamente a Dio, a Gesù e agli uomini. Ha saputo identificarsi in Gesù
e, come Gesù, ha saputo darsi agli uomini.
D. – E
non è un caso che la figura del beato Josép è spesso accostata a quella del Curato
d’Ars. Cosa accomuna queste due figure?
R. – Tutti
e due sono stati parroci che si sono dati ad amare i loro fedeli per portare loro
questo amore di Dio, per avvicinare Dio agli uomini e far sì che gli uomini si avvicinino
alla misericordia di Dio. Tutti e due si sono dati completamente al lavoro pastorale
con la confessione, la direzione spirituale, il servizio agli ammalati, ai poveri
e così hanno portato l’amore di Dio agli uomini.
D.
– Il beato Josép visse negli anni Trenta, un momento difficile per la Spagna dilaniata
dalla guerra civile. Come riuscì a mantenersi al di sopra dei conflitti politici?
R.
– Lui, grazie proprio a questo amore, a questa presenza di Dio, alla preghiera che
viveva profondamente, ha sentito questa pace interiore. Tutti i testimoni che sono
stati in carcere con lui – laici e qualche altro sacerdote – hanno visto la serenità
di questa persona che fino all’ultimo momento è andato con questa pace a cercare il
Signore, che gli portava il dono del martirio. Ha perdonato – e questa è una cosa
che una persona che non vive la presenza di Dio non può fare: perdonare chi ti uccide.
È così difficile! … E lui lo ha fatto. Ha detto: “Avvicinatevi, ché vi voglio abbracciare
tutti, prima di morire!” …
D. – Secondo i vescovi
del tempo, il beato Josép era il miglior catechista della diocesi; la sua figura quindi
ci insegna l’importanza della catechesi …
R. – Certo,
certo. Questo ministero della catechesi, dell’annuncio della Buona Novella ai piccoli,
ai grandi, ai giovani e agli adulti, lui l’ha vissuto dal primo momento che è stato
in parrocchia. Ha dedicato tutta la vita a questo ministero, ha scritto anche la “Guida
per i catechisti ed i direttori di catechesi”: lo ha scritto nel ’36, ma fino al ’40
non è stato pubblicato. È veramente un libro che, come qualche vescovo, ha anticipato
le idee del Concilio Vaticano II, perché ha fondato la sua catechesi sulla Bibbia,
sulla liturgia e sulla vita del popolo, sugli esempi di vita quotidiana. Diceva: “Il
catechista deve essere come i genitori: deve amare i ragazzi per poterli educare nella
fede”. Se uno non sa amare i ragazzi con questo amore che hanno i genitori, meglio
che non faccia catechesi perché insegnerà cultura religiosa, ma non trasmetterà l’amore
che la fede ci insegna.
D. – Quale eredità ci ha
lasciato il beato Josép?
R. – Un’eredità molto profonda,
molto grande, molto impegnativa: innanzitutto il vivere come Gesù ha vissuto, e da
qui parte tutto. E poi il grande spirito di evangelizzazione, il grande spirito di
generosità e amore verso gli altri, la donazione agli altri. Questo è molto impegnativo.
E credo che se noi dobbiamo seguire i martiri, modelli per tutti noi, questo ci impegna
veramente!