Un evento che rafforza il dialogo. Sulla visita del Papa alla sinagoga di Roma,
il commento di Riccardo Pacifici e di mons. Vincenzo Paglia
La Roma ebraica e la Roma cristiana si incontrano: poche ore separano dunque Benedetto
XVI dal suo ingresso al Tempio Maggiore, la sinagoga romana. Un evento, come ha sottolineato
il Papa, che consolida il dialogo tra le due comunità, legate da un rapporto speciale,
che non si è mai interrotto anche nei momenti di particolare difficoltà. Per una testimonianza
sui sentimenti con i quali gli ebrei romani si preparano ad accogliere, Alessandro
Gisotti ha intervistato Riccardo Pacifici, presidente della Comunità ebraica
di Roma:
R. - Ovviamente,
sarà una visita storica. E questo proprio per quel processo - seppur lento, ma comunque
importante - di riconciliazione e di opportunità che esiste non tanto tra le confessioni
ma tra i singoli, che immaginiamo possa avere come ricaduta questo evento. D.
- La visita del Papa avviene nel giorno in cui la comunità ebraica e quella cattolica
celebrano insieme la Giornata del dialogo e in cui ricorre anche il “Mo’ed di piombo”.
La volontà di dialogare è più forte di ogni difficoltà ed anche incomprensione… R.
- C’è la memoria forte di questa festa - il Mo’ed significa "festa" - che ricorda
un miracolo avvenuto nel ghetto di Roma, nel momento più basso per gli ebrei, che
erano costretti a vivere a causa del potere temporale dei Papi dentro i ghetti. Una
rivolta popolare aveva dato fuoco al ghetto: un cielo di piombo nero calò nella città
e il diluvio spense quell’incendio, che chissà quale catastrofe avrebbe provocato.
L’idea che questo incontro avvenga, invece, in un clima completamente diverso - e
noi lo ricordiamo - nel Giorno del dialogo testimonia come nel corso dei secoli e
degli anni tanta strada sia stata fatta insieme. Abbiamo ora il dovere di continuare
a tracciarla con un occhio certamente al passato, ma allo stesso tempo senza alcuno
spirito di rivalsa e cercando soprattutto di consegnare ai nostri figli un mondo migliore
e capire come le confessioni possano lavorare non tanto per convincersi delle ragioni
dell’altro, ma soprattutto per capire come insieme possiamo lavorare per il benessere
della società civile, anche per coloro che credenti non sono, compresi anche coloro
che sono di fede diversa dalle nostre, tanto che abbiamo invitato anche esponenti
moderati del mondo islamico. D. - A ricordo della storica visita,
verrà piantato un albero di ulivo. Un momento, questo, anche simbolicamente significativo… R.
- Secondo la simbologia ebraica, l’albero ha un senso della continuità della vita
anche dopo il nostro trapasso. L’idea che da parte del Pontefice arrivi un segnale
per noi così importante qual è quello della piantagione di un albero nei giardini
della Sinagoga, credo che possa rappresentare un momento molto alto e significativo.
Vogliamo immaginare che non rimanga solo relegato al momento della piantagione, ma
che possa poi realmente dare dei frutti. D. - L’immagine del
Rabbino di Roma e del vescovo di Roma assieme sarà certo un messaggio forte per le
due comunità… R. - Vogliamo utilizzarlo affinché questo momento
di dialogo e di confronto nella diversità possa irradiarsi anche in quei luoghi del
mondo dove non esiste la libertà religiosa e dove costruire una chiesa o una sinagoga
significa perdere la vita. Credo che se da Roma si riuscisse a mandare un messaggio
forte di libertà per tutte le confessioni religiose in quei Paesi dove questa è vietata,
vorrà dire che certamente avremo fatto un passo in più per la libertà di ogni essere
umano. Dopo Giovanni Paolo II, dunque, anche Benedetto XVI incontrerà la comunità
ebraica romana nella sinagoga. Pontefici e contesti diversi, ma con lo stesso inequivocabile
messaggio di dialogo e riconciliazione. Alessandro Gisotti ha chiesto una riflessione
sull’evento al vescovo di Terni, mons. Vincenzo Paglia, già presidente della
Commissione Ecumenismo e Dialogo della Conferenza episcopale italiana (Cei): R. - Dopo quell’evento
straordinario, questa seconda visita conferma in maniera totale quella di Giovanni
Paolo II e porta verso un passo ulteriore, una collaborazione ancora più evidente
tra queste due religioni. Potremmo dire che l’amicizia tra ebrei e cristiani, un’amicizia
intesa in senso robusto, non è più ormai una sorta di optional, diventa - azzardo
- una sorta di obbligo teologico. La fraternità tra questi due popoli è parte integrante
- direi - dei rispettivi credo. D. - La visita del Papa alla
Sinagoga di Roma coincide con la XXI Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo
del dialogo tra cattolici ed ebrei. Un modo straordinario di celebrare questa iniziativa… R.
- Non c’è dubbio. Tra l’altro, voglio sottolineare una cosa. I temi che stiamo trattando
in queste Giornate, ossia le Dieci Parole, i Dieci Comandamenti, sono nati proprio
dall’ascolto di quanto il Papa Benedetto disse nella Sinagoga di Colonia nel 2005,
quando affermò che i campi di incontro tra le due fedi sono ampi. In particolare,
il Papa accennò al patrimonio spirituale dei Dieci Comandamenti che uniscono ebrei
e cristiani per riproporre l’unicità di Dio, riproporre la sua legge iscritta nei
cuori degli uomini, fatti appunto a Sua immagine e somiglianza. D.
- In un intervento del 2000, l’allora cardinale Ratzinger sottolineava che per i cristiani
la fede testimoniata nella Bibbia degli ebrei non è un’altra religione ma il fondamento
della propria fede. L’impegno di Benedetto XVI per il dialogo con gli ebrei viene
da lontano… R. - Esattamente. Molti sono gli interventi dell’allora
teologo e poi cardinale Ratzinger sul rapporto tra le Scritture ebraiche e le Scritture
cristiane. Questo, per esempio, è un tema che Benedetto XVI sottolinea. L’interpretazione
ebraica dell’Antico Testamento fa parte in qualche modo anche del patrimonio cristiano,
il Papa lo sottolinea da tempo. Questo è un altro dei campi dove il cammino delle
due religioni deve continuare, anzi deve essere percorso in maniera più coraggiosa. D.
- La storia dei rapporti tra la comunità ebraica e cattolica è stata talora “tormentata”,
come ebbe a dire Giovanni Paolo II. Eppure, nonostante difficoltà e incomprensioni,
è sempre prevalsa la comune volontà di camminare assieme. Questa è una certezza anche
per il futuro? R. - Io direi proprio di sì. Prendiamo l’esempio
di una strada: nessuna strada è mai priva di sassi o di qualche buca. Il problema
è non lasciarle allargare. Ma ormai io credo che il dialogo ebraico-cristiano sia
assolutamente irreversibile, semmai dobbiamo scoprirne tutte le potenzialità. Penso,
ad esempio, quanto sia utile l’incontro tra cristiani ed ebrei nei confronti delle
altre religioni. Il patrimonio spirituale ebraico cristiano è non solo un legame forte
tra noi, ma è anche una energia propulsiva per l’incontro con le altre regioni e io
direi anche per la promozione della cultura, in particolare quella occidentale. A
mio avviso, non sono radici secche: al contrario sono gravide di forza, di energia,
di ispirazione.