La Chiesa ricorda e celebra Sant’Antonio Abate, eremita e monaco per amore di Dio
ma aperto alla carità vissuta
Fondatore del monachesimo cristiano e primo degli Abati: così viene considerato Sant’Antonio
Abate, che la Chiesa ricorda oggi, 17 gennaio, nel giorno della sua morte. A questo
santo di origini egiziane, vissuto nel terzo secolo, si deve la costituzione in forma
permanente di una famiglia di monaci che, sotto la guida di un padre spirituale, si
consacrarono a Dio nel corso dei secoli. Ce ne parla Isabella Piro:
“Se vuoi
essere perfetto, va’, vendi ciò che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nel cielo.
Poi vieni e seguimi”. Furono le parole dell’evangelista Matteo a segnare la vita di
Sant’Antonio Abate. Nato a Coma, in Egitto, intorno al 250, proveniva da una famiglia
agiata di agricoltori. Intorno all’età di 18 anni, rimase orfano, amministratore di
un ricco patrimonio. Ma Antonio scelse la strada della povertà, del silenzio, della
preghiera. Mise in vendita i suoi beni e si rifugiò in un’antica tomba nei dintorni
di Coma. Viveva pregando, cibandosi dei prodotti della terra, resistendo alle tentazioni
e perseverando nella fede.
Nel 285, Antonio si spostò
verso il Mar Rosso, sulle montagne del Pispir. Rimase lì per 20 anni, in una fortezza
abbandonata, infestata dai serpenti. Due volte l’anno, riceveva del pane. Ogni giorno
lottava contro il demonio, che spesso si presentava sotto forma di animale. La sua
figura divenne leggendaria, finché un giorno le persone che volevano dedicarsi alla
vita eremitica abbatterono le mura della fortezza e lo raggiunsero. Cominciarono così
a formarsi i primi gruppi di monaci, ai quali Antonio offriva consigli nel cammino
verso la perfezione dello spirito. Una figura singolare, dunque, quella di questo
Santo, come spiega padre Graziano Pesenti, carmelitano, ed autore
del libro “San’Antonio Abate. Padre del monachesimo”, edito dalla Velar:
“Era
veramente una persona interessante, direi quasi unico nella sua espressività forte.
Si impose perché ebbe un’intraprendenza singolare pur desiderando di essere solitario,
di essere un monaco. Desiderava solitudine, povertà e lavoro, perché quanti bussavano
alla sua porta ottenevano sempre un dono. Non è che fuggisse il mondo perché lo odiasse
o per altri motivi, ma lo fuggiva per potersi unire a Dio ed accrescere il suo amore
verso il prossimo. Era un autentico cristiano, che visse integralmente la fedeltà
a Cristo. Avvertiva, insomma, un bisogno di estraniarsi, non voleva il potere”.
Nel
311, Antonio non esitò a lasciare il suo eremo per recarsi ad Alessandria, dove imperversava
la persecuzione contro i cristiani, ordinata dall’imperatore Massimino Daia. Antonio
sostenne e confortò i fratelli nella fede. Il martirio gli fu risparmiato. Tornata
la pace nell’impero, il Santo egiziano si trasferì nel deserto della Tebaide dove
morì il 17 gennaio del 356. Aveva 106 anni. Ma quale eredità ci ha lasciato Sant’Antonio
Abate? Ancora padre Pesenti:
“Il distacco dei beni materiali - essenziale
in un rapporto religioso con Dio - il rispetto della natura, perché lavorava, ed un
grande amore verso il prossimo, indipendentemente da protezioni civili o religiose”.
Nella
sua lunga vita, Antonio scrisse molto. I suoi discepoli raccolsero la sua sapienza
in 120 detti e 20 lettere. In una di queste, il Santo scriveva: “Chiedete con cuore
sincero quel grande Spirito di fuoco che io stesso ho ricevuto ed esso vi sarà dato”.