La morte del regista Eric Rohmer, autore di storie e personaggi di inimitabile grazia
narrativa e visiva
Si è spento ieri a Parigi all’età di ottantanove anni il regista francese Eric Rohmer.
Autore di numerosi capolavori, si congeda dal mondo del cinema e dell’arte con quella
sobrietà e leggerezza che ha contraddistinto tutta la sua vita e caratterizzato tutta
la sua opera, nella quale personaggi semplici e pieni di grazia sono divenuti protagonisti
di un cinema inimitabile. Il servizio di Luca Pellegrini:
Un cinema
per pochi. Un cinema per le persone che sanno ricordare e raccontare con un sorriso,
con riservatezza, che sanno nella vita anche nascondere, non per sottrarre verità
e luce e bene, ma per lasciare che siano la natura, il gesto, l’esistenza, le cose,
il destino, i giorni a far affiorare storie, sentimenti, memorie, amori. Lui, Eric
Rohmer, questo lo sapeva fare benissimo, scrivendo e dirigendo film che sono tutti,
nessuno escluso, degli eleganti, dei puri capolavori. Eric Rohmer non va pianto, per
la sua morte che crea davvero un vuoto immenso nella storia del cinema e della cultura.
Eric Rohmer va ricordato con un lieve sospiro, con un silenzio profondo, magari facendo
una passeggiata sulla spiaggia come la sua giovane Pauline, protagonista nel 1983
del terzo episodio della serie “Commedie e proverbi”, o come l’inquieta e timida Delphine
de "Il raggio verde", titolo che nel 1986 gli fece vincere il Leone d’oro a Venezia,
replicato con quello alla carriera ricevuto nel 2001. Discreto e riservato, come lo
sono soltanto i grandi maestri e i grandi artisti, Rohmer è stato uno dei padri fondatori
della Nouvelle Vague, ma intraprendendo poi un cammino molto personale, spesso non
condiviso e di raffinata semplicità. Opere sempre regolari, suddivise regolarmente
in cicli, come i suoi "Racconti morali" realizzati negli anni ’60 o quelli delle "Quattro
Stagioni" compiuti negli anni ’90, trasparenti e leggeri, la parola e i volti illuminati
dallo sguardo distaccato della cinepresa, quasi occultata, mimetizzata nelle oasi
della natura e nelle pieghe dell’anima, perché tutto ciò che nel cinema è finzione
possa rimanere lontano e nascosto e non si sovrapponga mai a quello che conta veramente,
ossia la vita degli uomini e delle donne nel tempo, il loro amore, le loro scoperte.
Ogni
nuovo film di Rohmer è stato un avvenimento che ha riempito di gioia e di stupore
chi già lo conosceva o chi lo scopriva per la prima volta. Un pittore di atmosfere,
come nel singolare "La nobildonna e il duca", con vicende rivoluzionarie francesi
stemperate su quinte dipinte, sfondo su cui si muovono i protagonisti recitando un
francese sublime; un poeta capace di trasformare la stessa poesia in un “fatto” cinematografico,
come accadde con "Perceval le gallois", tratto dal romanzo medievale di Chrétien de
Troyes, rigorosa e squisita opera del 1978 nella quale il teatro è trasformato a uso
del cinema, spogliato di tutto tranne che dell’attore e della sua recitazione, stile
che sarà poi imitato da altri negli anni a venire. Rohmer si è congedato dallo schermo
nel 2007 con un’altra opera emblematica, "Les amours d’Astrée et Céladon", anch’essa
tratta da un capolavoro letterario scritto nel XVII secolo da Honoré d’Urfé. Un testamento
d’incomparabile nobiltà artistica in cui il soffiare del vento si alterna alla nobiltà
del verso poetico, un sospiro languido segue un cenno di mano, un bacio e una carezza
sono gioiosamente nascosti, così come una lacrima e un sospiro. Un cinema che si lascia
cullare dalla parola, dal gusto sublime dell’arte, con il tocco del maestro disseminato
in ogni inquadratura, lo spericolato rincorrersi di figure anacronistiche in un prato
verde e selvaggio, il baciarsi in un letto immacolato, il giurarsi fedeltà e amore
nel brillare del sole, nel rimpianto per una stagione che ormai abbiamo, hélas, con
la morte di Rohmer, forse irrimediabilmente perduta.