Dopo il sanguinoso attacco, la nazionale di calcio del Togo lascia la Coppa d'Africa.
Con noi, don Mario Lusek
La nazionale di calcio del Togo rientrerà in patria e non giocherà nel torneo per
la Coppa d'Africa, in Angola. Lo ha affermato ieri il calciatore togolese Emmanuel
Adebayor alla radio francese Rmc. L'annuncio è arrivato dopo che i giocatori avevano
espresso la volontà di partecipare alla manifestazione sportiva, nonostante l’attacco
di venerdì scorso ai danni dell’autobus della squadra, nella enclave di Cabinda, costato
la vita a due persone. Per una riflessione sulla tragica vicenda, Alessandro Gisotti
ha intervistato don Mario Lusek, direttore dell'Ufficio della Cei per la Pastorale
del tempo libero, turismo e sport:
R. – Quando
avvengono fatti come questi chiaramente si guarda quello che è il contesto sociale,
culturale dell’Africa, le ferite ancora vive che sono impresse nel corpo di questo
continente. Papa Benedetto ce l’ha ricordato benissimo nel Sinodo dell’Africa, dove
ha messo proprio il dito nelle piaghe del continente, le ha individuate in maniera
ben precisa. Quello che turba è che queste ferite ancora aperte si riversino anche
sullo sport, che dovrebbe favorire un processo di riconciliazione, di incontro, di
dialogo e soprattutto di simpatia tra le diverse culture ed etnie che popolano l’Africa.
Purtroppo, queste ferite ancora aperte riducono l’aspetto sportivo, anche in Africa,
ad un consumo, ad un consumo sportivo, facendogli perdere l’identità di promozione
del dialogo, dell’incontro e della pacificazione di quelle terre. Questo è evidente.
Tali ferite aperte si ripercuotono anche all’interno del mondo calcistico, ma non
solo calcistico, sportivo in generale. Quindi, chiaramente, non aiutano al riscatto
di quel continente, quel rialzarsi per manifestare la sua dignità. E’ il problema
della sicurezza adesso che viene messo in discussione e, nello stesso tempo, rispecchia
quella che è la cultura mondiale, che si strumentalizza eventi sportivi per rivendicazioni
che non hanno nulla a che fare con l’avvenimento stesso. D.
– Questa strage avviene peraltro a pochi mesi dall’inizio del mondiale in Sudafrica,
il primo campionato mondiale di calcio in Africa e, dunque, chiaramente getta anche
un’ombra su questo grande evento...
R. – Un’ombra
forte e un’ombra terribile soprattutto per quanto riguarda questa ipotesi di riscatto.
Io credo che gli eventi internazionali come questi possano favorire moltissimo, nelle
varie parti del mondo, un processo di emancipazione, una ricerca di benessere, una
valorizzazione delle culture e delle tradizioni locali. Quindi, la Coppa d'Africa
era un’occasione per fare emergere le realtà più positive, più belle che il continente
vive, perché lo sport aiuta anche ad affrontare quella che noi chiamiamo “la vita
stessa” e porta con sé anche una metafora della vita. Dentro al continente africano
vediamo che anche le deviazioni che si sono manifestate in questi giorni sono uno
specchio della cultura locale. Quindi, si spreca un’occasione. Io penso che proprio
quell’invito che Papa Benedetto fece nell’omelia finale del Sinodo: “Coraggio alzati
Africa”, sia il linguaggio di questo momento. Nonostante tutto, nonostante questo
fatto di sangue terribile, abbiamo bisogno di speranza, di fiducia e di ottimismo,
di andare avanti.