La Chiesa e l’Africa, speranze e aspettative per il 2010.
Il 2009, che si è appena concluso, può essere in qualche modo definito per la Chiesa
l’anno dell’Africa, caratterizzato dal viaggio pastorale che il Papa, nel marzo scorso,
ha fatto in Camerun e Angola e poi dal Sinodo dei Vescovi per l’Africa, in ottobre.
Ci si chiede ora se le speranze di sviluppo spirituale e sociale, suscitate da questi
due avvenimenti, potranno essere realizzate nel 2010. Giancarlo La Vella ne
ha parlato con Enrico Casale della rivista dei Gesuiti “Popoli”:
R. – La Chiesa
si è posta di fronte a questo continente e ha cercato di andare al fondo dei suoi
problemi per trovare una soluzione. La cosa interessante del viaggio del Papa, ma
anche del Sinodo dei Vescovi, è il messaggio lanciato dalla Chiesa, cioè gli africani
sono padroni del proprio destino e sono gli africani che, scegliendo le proprie classi
dirigenti, gestendo bene le loro immense risorse, possono risollevare il continente.
Certo, questo continente può essere sollevato soprattutto dagli africani affiancati
dalla comunità internazionale, perché se l’Africa è in queste condizioni, è perché
ha subito decenni se non secoli di colonialismo prima, e decenni di colonialismo economico
dopo, fino ai giorni nostri. D. – C’è terreno fertile, affinché
questo forte appello del Papa alla maturità non solo degli africani, ma di tutta la
comunità internazionale, possa produrre effetti positivi per il continente africano? R.
– Io sono convinto che i giovani africani possano prendere in mano il proprio destino
e il destino del proprio continente. Intendiamoci: non ci possiamo aspettare cambiamenti
nell’arco di 10-20 anni; saranno cambiamenti nel medio-lungo periodo e va creata la
classe dirigente del continente attraverso la formazione, attraverso il sostegno economico,
il che non significa solo denaro – certo anche quello –, però soprattutto sostegni
a economie magari improduttive. Bisogna aiutare gli africani a essere autonomi e a
sviluppare le proprie capacità. In questo la Chiesa cattolica sta giocando un ruolo
importante, attraverso le sue scuole fino al livello universitario. D.
– Quindi, l’Africa continuerà ad essere oggetto preponderante della solidarietà? R.
– Io credo di sì. Però credo che la solidarietà debba essere bene intesa: non è solidarietà
mandare il surplus della produzione in Africa; la solidarietà è sostenere la crescita
degli africani, quindi puntare molto sull’educazione, sulla formazione, soprattutto
la formazione professionale, aiutare molto le classi dirigenti attuali e quelle future
a pensare non a livello individuale ma per il bene comune della popolazione. E, soprattutto,
aiutare anche la popolazione africana a guarire dai suoi mali, proprio dai mali fisici;
creare strutture sanitarie che siano efficienti e a basso costo se non gratuite per
permettere all’Africa di uscire dal fatto che subisce malattie che altrove sono controllabili
o addirittura curabili. Penso alla malaria, ma anche all’Aids che può essere, se non
curato, almeno controllato nelle sue manifestazioni peggiori. Aids che, in questi
ultimi decenni, ha cancellato un’intera generazione di giovani africani.