L'intenzione missionaria del Papa per il mese di dicembre: le nazioni si aprano alla
luce di Cristo
“Perché a Natale i popoli della terra riconoscano nel Verbo la luce che illumina ogni
uomo e le Nazioni aprano le porte a Cristo, Salvatore del mondo”. Le parole con le
quali Benedetto XVI esprime l’intenzione missionaria per il mese di dicembre portano
la Chiesa direttamente nel mistero del prossimo Natale. Un auspicio espresso più volte
in modo analogo dal Papa, soprattutto durante le omelie delle Messe di Natale da lui
presiedute durante l’arco del Pontificato. Alessandro De Carolis ne ripropone
alcuni passaggi in questo servizio:
Che cos’è
la stalla di Betlemme senza il Dio Bambino? E’ come il mondo senza Cristo: un luogo
povero, freddo, buio. La stalla, afferma Benedetto XVI la notte di Natale del 2007,
“rappresenta la terra maltrattata”. Eppure è anche il segno di qualcos’altro. Il segno
di una presenza che riscalda il freddo e illumina l’ombra. Ma non solo: “Nella
stalla di Betlemme cielo e terra si toccano. Il cielo è venuto sulla terra. Per questo,
da lì emana una luce per tutti i tempi; per questo lì s’accende la gioia; per questo
lì nasce il canto." Un canto al quale, però, le orecchie di alcuni
restano sorde. Molte altre indifferenti. Altri ancora, riconosce il Papa nell’omelia
del 24 dicembre 2005, “sanno di aver bisogno” della bontà della quale quel Bambino
è portatore, “anche se non ne hanno un’idea precisa”. In qualche modo, osserva il
Pontefice ancora nel 2007: "…l’umanità attende Dio, la sua
vicinanza. Ma quando arriva il momento, non ha posto per Lui. È tanto occupata con
se stessa, ha bisogno di tutto lo spazio e di tutto il tempo in modo così esigente
per le proprie cose, che non rimane nulla per l’altro - per il prossimo, per il povero,
per Dio”. Se pure una sola Betlemme al mondo si apre al Cristo che
viene, “Dio - assicura Benedetto XVI - non si lascia chiudere fuori. Egli trova uno
spazio, entrando magari per la stalla”. Egli sa che “esistono degli uomini che vedono
la sua luce” e desiderano farne dono, secondo lo spirito più bello del Natale, come
dice il Papa nella Notte Santa del 2006: “Tra i tanti doni
che compriamo e riceviamo non dimentichiamo il vero dono: di donarci a vicenda qualcosa
di noi stessi! Di donarci a vicenda il nostro tempo. Di aprire il nostro tempo per
Dio. Così si scioglie l'agitazione. Così nasce la gioia, così si crea la festa”. Una
festa che ieri come oggi reclama di essere celebrata soprattutto in quella terra definita
“santa” per la nascita del Principe della pace, ma per paradosso sempre lontana dal
godere dei frutti di quel privilegio, come riconobbe il Pontefice nella Messa natalizia
dello scorso anno: “Che cessino l’odio e la violenza. Che
si desti la comprensione reciproca, si realizzi un’apertura dei cuori che apra le
frontiere. Che scenda la pace di cui hanno cantato gli angeli in quella notte". Perché
quel canto non si è mai allontanato da Betlemme, né il cielo dalla quella piccola
stalla vuota che spesso è il mondo senza Cristo. E’ questa, ha ripetuto Benedetto
XVI nel 2007, la speranza immutabile del Natale: "Il cielo
non appartiene alla geografia dello spazio, ma alla geografia del cuore. E il cuore
di Dio, nella Notte santa, si è chinato giù fin nella stalla: l’umiltà di Dio è il
cielo. E se andiamo incontro a questa umiltà, allora tocchiamo il cielo. Allora diventa
nuova anche la terra."