Il no ai minareti in Svizzera: critiche dai vescovi e dall’Ue
La presidenza di turno svedese dell'Ue ha espresso sorpresa e rammarico per lo svolgimento
del referendum con il quale ieri gli svizzeri hanno detto "no" alla costruzione di
nuovi minareti sul loro territorio. Secondo i risultati ufficiali del referendum,
promosso dalla destra nazional-conservatrice, il 57,5% degli elettori si è espresso
contro. Il ministro svizzero di Giustizia e Polizia, Eveline Widmer-Schlump, ha sottolineato:
"La decisione riguarda soltanto l'edificazione di nuovi minareti e non significa un
rifiuto della comunità dei musulmani, della loro religione e della loro cultura. Il
governo se ne fa garante". Per i vescovi svizzeri, si tratta di un duro colpo all’integrazione
e alla libertà di religione. Nell’intervista di Massimiliano Menichetti, la
riflessione di mons. Felix Gmür, segretario generale della Conferenza episcopale
svizzera:
R. - I vescovi
non sono contenti, è un colpo alla libertà di religione. Il Concilio Vaticano II dice
chiaramente che è lecito per tutte le religioni la costruzione di edifici religiosi
e il minareto è un edificio religioso. E’ un colpo all’integrazione di tutti quelli
che vengono in Svizzera.
D. - Perché si è arrivati
a vietare la costruzione dei minareti?
R. – Perché
la gente ha paura di chi viene da lontano, di chi non si capisce. Poi c’è stata una
propaganda assai forte, non hanno parlato solo di minareti ma hanno parlato degli
estremisti… Dunque la gente ha paura e adesso si chiude.
D.
- Come si vince la paura, secondo lei, per poter cambiare le cose?
R.
– Si vince quando si vive insieme perché a Basilea, città dove c’è la percentuale
più grande di musulmani in Svizzera, loro hanno respinto l’iniziativa. Pure a Ginevra,
dove ci sono tanti musulmani. Hanno vietato la costruzione soprattutto nei cantoni
dove ci sono pochi musulmani. Sempre la stessa situazione, quello che non si conosce
si respinge.
D. – Voi ribadite: in questo momento
è necessario sottolineare che la religione non è un fatto privato, perché secondo
voi questo aspetto ha avuto delle ricadute anche sul referendum sui minareti…
R.
– Perché quelli che erano per l’iniziativa hanno detto: la religione è una cosa privata.
Dunque, loro possono pregare dove vogliono ma non con un minareto in pubblico. Nello
stesso tempo dicono: la nostra cultura è cristiana. Ma dire che la cultura è cristiana
non è un fatto privato ma pubblico! Qui si deve fare un dibattito perché la società
su questo punto è un po’ disorientata, c’è una contraddizione che forse c’è un po’
in tutte le società europee. Anche per quanto riguarda i crocifissi in Italia è la
stessa cosa, dicono: è un affare privato
D. – Qual
è il vostro appello come vescovo?
R. – Che adesso,
ancora di più, dobbiamo aiutare i cristiani nei Paesi musulmani, perché lì i cristiani
non sono liberi, non possono costruire chiese, non possono pregare in luoghi pubblici.
Adesso, ancora di più, dobbiamo lottare per questi cristiani.
Ma,
ieri, gli aventi diritto al voto in Svizzera sono stati chiamati anche a pronunciarsi
su un quesito relativo all’esportazione di armi. Fausta Speranza ne ha parlato
con Maurizio Simoncelli dell’Archivio Disarmo:
R. – In Svizzera,
in realtà, è già la terza volta che viene affrontato il problema della messa al bando
dell’esportazione delle armi: la prima volta era avvenuto agli inizi degli anni Settanta,
dove si arrivò addirittura ad un 49 per cento di voti a favore della messa al bando;
nel ’97 è stato nuovamente riproposto, ma ugualmente è fallito; ed ora, nuovamente,
con il 68,2 per cento dei voti è stato bocciato. Sostanzialmente si chiedeva un impegno
della Confederazione nel campo del disarmo e del controllo degli armamenti a livello
internazionale e veniva richiesto il divieto di esportazione di transito attraverso
la Svizzera di materiale bellico, comprese le relative tecnologie che possono servire
alla produzione degli armamenti. Si chiedeva anche un intervento della Confederazione
nei confronti di quei distretti, di quelle persone e di quegli addetti che avrebbero
risentito ovviamente di questo divieto, ma purtroppo tutto questo non è passato. La
Svizzera rimane uno dei principali esportatori di armamenti a livello mondiale. Non
è certamente uno dei grandi produttori: siamo intorno al 14.mo posto, ma in realtà
contribuisce con un uno per cento della produzione mondiale. Comunque non è poco:
parliamo di circa 1.262 milioni di dollari esportati nel quinquennio 2004-2008.
D.
– Un voto locale ma che apre a una riflessione di ordine generale…
R.
– Anzitutto ha coinciso con il voto contro la costruzione dei minareti. Quindi, sembra
emergere che si teme più l’invasione dell’Islam, attraverso i minareti e quant’altro,
piuttosto che la vendita delle armi. Il problema di fondo, comunque, è che tutti gli
Stati devono operare in sintonia nel campo del controllo degli armamenti. Personalmente,
non credo che iniziative di un singolo Paese riescano a risolvere il problema della
produzione degli armamenti e del commercio indiscriminato. Ovviamente non sono contrario,
ma ritengo che se un Paese non vende armamenti, ci sarà certamente qualche altro Paese
che prenderà il suo posto. Da questo punto di vista è, invece, importantissimo operare
affinché la Comunità internazionale, la maggior parte dei Paesi, adotti una normativa
internazionale per la produzione e il commercio degli armamenti. Pensiamo alle normative
che si stanno adottando a livello dell’Unione Europea con il Codice di Condotta e
le nuove normative che sono in fase di elaborazione. Pensiamo al Trattato internazionale
per il commercio degli armamenti, indicato con la sigla Att. Le Nazioni Unite si stanno
impegnando per averlo nel 2012. Bisogna operare a livello internazionale.