Anno Sacerdotale, la testimonianza del cappellano delle Guardie Svizzere Pontificie
È cresciuto a Barcellona, in Spagna, ma ha origini svizzere, e da tre anni è cappellano
delle Guardie Svizzere Pontificie. Padre Alain Guy de Raemy vive al fianco
del corpo militare del Papa con uno spirito cameratesco, condividendo con i giovani
svizzeri diversi momenti della giornata. Ma qual è la storia di padre de Raemy e com’è
arrivato al sacerdozio? Ha raccolto la sua testimonianza Tiziana Campisi:
R. – Io devo
ringraziare i miei genitori per avermi portato alla messa ogni domenica. Il Signore
ha 'lavorato' il mio cuore poco a poco. Non sono mai stato in parrocchia, ho solo
frequentato la messa della domenica. Più di questo non c’era. Ma è questo che mi ha
aperto il cuore poco a poco. Più tardi, durante le vacanze in Bretagna, in Francia,
andando a messa abbiamo incontrato un parroco che mi ha colpito forse per il suo modo
di essere; lavorava durante la settimana con i pescatori ed usciva con loro anche
a pesca. Mi ha colpito il suo modo molto diretto di parlare.
D.
– Poi come è arrivata la scelta del sacerdozio?
R.
– E’ stata un po’ una battaglia. Non avevo alle spalle un'esperienza né di chierichetto
né di scout né di un qualsiasi gruppo parrocchiale. Non sapevo cosa facesse un prete.
Avevo questa idea, questa sensazione strana in me di fare il prete, ma mi faceva paura
perché mi domandavo cosa facesse un prete. Io non sapevo cosa facesse un prete, lo
vedevo alla messa la domenica. Ma sono timido e non mi vedevo davanti a tutta la gente
a pronunciare un discorso. Quindi mi sembrava che quella fosse un’idea strana. Il
mio progetto era quello di diventare architetto o diplomatico. Poi è arrivata questa
idea dentro di me, sempre più insistente, e quando ho iniziato gli studi di diritto,
ogni volta che passavo davanti ad una chiesa, mi colpiva. Durante gli studi al Collegio
benedettino per la maturità ci facevano fare, all’inizio della Quaresima, gli Esercizi
Spirituali con un prete gesuita. E’ lì che mi sono aperto e lui mi diceva sempre:
“Continua il tuo percorso previsto, ma sempre chiedendo nella preghiera che il Signore
ti mostri la strada”.
D. – Lei oggi è cappellano
delle Guardie Svizzere Pontificie. Questa missione a cosa la porta?
R.
– Mi porta ad essere molto, molto vicino a tanti giovani, che sono molto diversi
fra di loro rispetto all’origine della famiglia, del contesto parrocchiale che li
fa arrivare qui. Sono, quindi, molto vicino a loro e li accompagno in questo incontro-confronto
forte con la realtà della Chiesa, la realtà anche della fede. Io mangio con loro e
faccio anche la ronda con loro o sui posti di servizio quando sono soli. Sono queste
occasioni belle di dialogo personale.
D. – Ci sono
delle esperienze che ricorda particolarmente?
R.
– Sì, ce ne sono tante e diverse. L’esperienza dell’inizio è stata quella caratterizzata
dalla paura di celebrare il Sacramento della Confessione, di confrontarmi con gente
matura, molto più matura e che viene da te per vivere la penitenza e la confessione.
Questo impressiona. E’ stata per me veramente la scoperta della fede negli altri,
di questa fiducia e che anche quell’ostacolo di differenza di maturità e di età non
c’entra più, perché c’è il contatto con il prete, che è al di là delle apparenze o
delle cose umane. Questo mi ha colpito: vedere la fede e toccare quasi la realtà della
fede di chi si affida al sacerdote per incontrare Cristo.
D.
– Se dovesse fare un bilancio della sua vita, potrebbe dire di essere felice?
R.
– Sì, sì senza dubbio e questo grazie alla famiglia. Sono veramente debitore verso
i miei genitori anche per il fatto di aver potuto ricevere una formazione ed una educazione
buona, anche dal punto di vista intellettuale. Ho avuto questo privilegio. Poi c’è
la fede, naturalmente, che mi ha accompagnato senza alcuna pressione. Penso che per
tutto questo sono un uomo felice, anche perché il prete non si sente inutile. Dunque
posso dire che la vita è bella.