A Roma il Consiglio pastorale nazionale dei cappellani delle carceri
E’ in corso a Roma il Consiglio pastorale nazionale dei cappellani delle carceri italiane:
al centro dell’incontro l’esigenza di una rinnovata testimonianza evangelica dei sacerdoti
in un ambito sempre più difficile, sia per i detenuti e le loro famiglie che per la
polizia penitenziaria. Gli interventi hanno messo in luce anche la drammatica questione
dei suicidi tra i carcerati. Ascoltiamo in proposito il cappellano di Rebibbia, don
Sandro Spriano, al microfono di Fabio Colagrande:
R. – Non
ho quasi più parole, perché non si vede nessuna luce da nessuna parte. E’ chiaro che
non mi aspetto interventi che possano assolutamente eliminare queste problematiche
gravissime dei suicidi. Le condizioni di vita si possono cambiare, ma non vedo alcuna
volontà da parte di noi liberi, da parte di chi ci governa, da parte di chi amministra
- perché non ci sono soldi, perché non c’è la voglia – non vedo la possibilità. Allora
parlarne è quasi uno schiaffo a questi morti. Non abbiamo numeri dietro le sbarre,
abbiamo persone, e noi cosa facciamo come cristiani per convincere chi governa a intervenire
al più presto? Altrimenti davvero si va verso la catastrofe.
D.
– Don Spriano, quale può essere il ruolo difficile dei sacerdoti anche in questa situazione?
R.
– Sicuramente è il ruolo di chi annuncia che non sono bestie rinchiuse, ma sono uomini
amati da Dio come tutti gli altri, che hanno una dignità eccelsa, anche se lì non
si vede più, e che hanno il diritto di sperare in un futuro un poco diverso, chiaramente
facendo i conti anche con le loro responsabilità di criminalità, piccola o grande
che sia. Questo nostro annuncio è bene ascoltato e richiesto, perché mi sembra quasi
di poter dire che in questo momento è l’unico annuncio di speranza che si riceve dentro.
D.
– Don Spriano, per la Costituzione la pena detentiva dovrebbe essere anche rieducativa,
invece porta le persone alla disperazione, all’autolesionismo, al suicidio. Lei conosce
i detenuti da tanti anni. Quale situazione psicologica si crea in questi casi per
arrivare a gesti così estremi?
R. – Proprio la situazione
di chi vede sulla sua pelle un’ingiustizia. E’ chiaro che le responsabilità ci sono,
ma le condanne sono talmente pesanti molto spesso, e non aspettate in quel modo, che
provocano proprio la disperazione dentro l’animo. Chi viene in carcere? Vengono questi
soggetti fragili. Non viene colui che fa danni e che però ha la capacità, la forza
e i soldi per potersi difendere. E allora di fronte ad una vita poi fatta quasi di
niente in carcere, è chiaro che una persona non capisce più cosa ci sta a fare in
questo mondo e arriva a questi gesti estremi. Poi è chiaro che arrivare ad un suicidio
vuol dire anche avere nell’animo una storia di vita assolutamente difficile, drammatica,
magari è soltanto il punto finale di qualcosa che anche fuori dal carcere è successo
in maniera devastante nella vita di quella persona. (Montaggio a cura di
Maria Brigini)