Negli ultimi anni l’istituzione carceraria è diventata in Italia il mezzo sostitutivo
delle carenti risposte sociali: è quanto è stato sottolineato durante il 42.mo Convegno
nazionale promosso dal Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario
(Seac). Durante l’incontro, conclusosi sabato scorso a Roma ed incentrato sul tema
“Lo stato del sistema sanzionatorio e le prospettive”, è stato lanciato un accorato
appello alle istituzioni. Ascoltiamo al microfono di Fabio Colagrande, Elisabetta
Laganà, presidente del Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario,
e Paolo Canevelli, presidente del Tribunale di sorveglianza di Perugia:
(Elisabetta
Laganà) R. – Quello che amaramente si può dire, come considerazione
iniziale, è che tutto cambia affinché niente cambi. Nel senso che sono 41 anni che
ci ritroviamo e facciamo convegni; ogni anno noi lanciamo un grido di allarme in merito
alla situazione del carcere e sembra che ogni volta ci sia la speranza di qualche
cambiamento, quindi che qualcosa possa succedere nella direzione di rendere più umana
la pena. E poi, quando sembra che ci si possa arrivare ... fortunatamente qualche
cosa è successo di molto importante, ma queste cose importanti, poi, vengono ridotte,
dimenticate o minimizzate … allora, ogni anno, senza presunzione ma senza stancarci,
anche con la determinazione che è tipica del volontariato, noi cerchiamo di porre
non solo agli addetti ai lavori queste tematiche, per far capire dal di dentro che
cosa succede effettivamente nel carcere, e quello che si potrebbe fare affinché le
cose possano cambiare, e per spezzare l’assioma “+ carcere = sicurezza”.
D.
– Dr. Canevelli, da qualche tempo il Seac auspica in particolare
interventi legislativi e sociali che riducano l’area della detenzione. Per parlare
ai non addetti ai lavori: cosa significa “ridurre l’area della detenzione” e com’è
possibile, praticamente?
R. – Anzitutto, ci sono
due profili da considerare. Il primo è quello che riguarda un enorme numero di persone
che sono ristrette in carcere ancora in attesa del processo, quindi nei confronti
di un numero molto rilevante di detenuti che sfiora e va oltre, anche, il 40 per cento
delle presenze attuali, si potrebbe immaginare soprattutto per le persone meno “pericolose”
di questo gruppo, delle forme alternative di detenzione, in una fase in cui ancora
la loro colpevolezza non è stata dimostrata. In secondo luogo, poi, c’è tutto un aspetto
che riguarda invece le persone condannate definitivamente che stanno in carcere per
espiare la loro pena. Prevedere un’unica sanzione – il carcere uguale per tutti, per
tutti i comportamenti – comporta sicuramente delle disuguaglianze. Cosa si può pensare
in alternativa? Certo, si può immaginare – come molti altri Paesi hanno – sanzioni
che invece non siano completamente privative della libertà personale: il lavoro di
pubblica utilità, sanzioni da svolgere nell’ambito della società esterna, sanzioni
ricche – anche – di prescrizioni e di contenuto anche afflittivo, se vogliamo. Sanzioni
che avrebbero forse un’efficacia anche maggiore come impatto, rispetto alla vittima
del reato, e che sicuramente avrebbero un’efficacia maggiore al termine della sanzione,
quando poi bisogna fare i conti con l’eventuale rischio di recidiva. Perché tutte
le statistiche testimoniano come l’autore di reato che sconta la pena integralmente
in carcere, al momento dell’uscita dal carcere ha un rischio molto più elevato di
tornare a delinquere rispetto a chi, invece, è stato preso in carico dai servizi sociali
dell’amministrazione, dai servizi di rete, dal volontariato; e che, una volta uscito
dal carcere, invece, ha un progetto sostenuto da tutta una serie di componenti che
gli sono state vicino. (Montaggio a cura di Maria Brigini)