Allarme cocaina in Europa: riscoprire il senso della vita e delle relazioni umane
All’indomani della pubblicazione del rapporto sulle droghe in Europa, la società civile
si interroga su alcuni dati particolarmente allarmanti. E’ il caso dell’uso della
cocaina, sempre più diffusa tra le fasce giovanili. Su questo aspetto del fenomeno
tossicodipendenza si sofferma Michele Gagliardo, responsabile del Piano Giovani
del “Gruppo Abele”, intervistato da Alessandro Gisotti:
R.
– Non vorremmo mai vedere dati di questo tipo, anche perché sono molti anni che si
denuncia questo crescente utilizzo della cocaina. Mi verrebbe quasi da dire “normalizzazione
dell’utilizzo della cocaina”. Sono davvero tanti anni! E ogni volta che si esce con
una ricerca, c’è il rischio di accorgersi di qualcosa che invece accade quotidianamente
nelle nostre città. Ci dev’essere un grande impegno da questo punto di vista per non
occuparci soltanto quando emergono dati che ci allarmano, ma di costruire un lavoro
continuativo, radicato nel quotidiano, giorno dopo giorno, nella vicinanza tra le
persone.
D. – Può dirci, anche in base alla vostra
esperienza, chi è il giovane – ma non solo il giovane – che fruisce di droghe, cocaina
in primis?
R. – L’identikit è difficile da fare,
perché c’è davvero un consumo trasversale: per età, che si abbassa come età di inizio,
ed arriva fino ad età molto avanzate; ma è un consumo trasversale anche rispetto all’estrazione
sociale, all’estrazione culturale. Noi troviamo lo studente, il professionista, l’operaio,
l’uomo della strada … In questo senso, l’identikit non è semplice, perché questo tipo
di consumo è entrato davvero un po’ nella normalità della nostra vita.
D.
– Nella prima risposta ha usato il termine “normalizzazione”: è questo il rischio?
Cioè che si vada sempre più pensando che sia quasi “normale” l’uso di droghe?
R.
– Il pericolo che stiamo correndo è che l’uso di sostanze stupefacenti rischiano di
essere dei mediatori che le persone usano per raggiungere alcuni bisogni fondamentali,
come il bisogno di identità, il bisogno di appartenenza ad un gruppo, di vedersi riconosciute
le proprie capacità … In un contesto storico e sociale che fa molta fatica ad aiutare
a cogliere questi segnali di valore delle persone, di percorso di crescita, di emancipazione
delle persone, il rischio è che ci si aggrappi a questi strumenti artificiali nella
disperata ricerca di una restituzione positiva di sé!
D.
– Alla base del problema, del fenomeno c’è dunque la mancanza di senso della vita,
di relazioni personali, in definitiva, di amore?
R.
– Sì: vuol dire recuperare il senso del valore dello stare insieme, dell’aiutarsi,
dell’accompagnarsi, di essere parte di una comunità, ecco: questo forse è il termine
più forte. Recuperare la dimensione della fraternità, del costruire insieme qualche
cosa che abbia valore per tutti … Io, per l’esperienza che abbiamo fatto in questi
anni, vedo che queste cose sono possibili, che molte persone con cui noi lavoriamo
riprendono in mano la loro vita in modo diverso, e sono d’insegnamento alle vite degli
altri …