Il giurista Cardia: la sentenza della Corte di Strasburgo sul Crocifisso disconosce
la nostra storia, c’è bisogno di una laicità inclusiva
“Una sentenza orientata ideologicamente”: il cardinale Angelo Bagnasco definisce così
il pronunciamento della Corte di Strasburgo, che chiede la rimozione dei Crocifissi
dalle aule scolastiche. Al quotidiano Avvenire, il presidente della Conferenza
episcopale italiana esprime il suo stupore e sconcerto. Questa sentenza, ha detto
il porporato, non tiene conto della “verità storica dell’Italia e dell’Europa” che
“traggono la loro ispirazione dal Vangelo”. D’altro canto, la sentenza della Corte
è anche inappropriata sotto il profilo giuridico. E’ quanto sottolinea il prof.
Carlo Cardia, docente di Diritto ecclesiastico all’Università Roma Tre, intervistato
da Alessandro Gisotti:
R. – C’è
un problema di competenza perché la Corte di Strasburgo ha addirittura contraddetto
la propria stessa giurisprudenza. In molti precedenti della Corte si diceva che essa
non poteva entrare nel merito della disciplina del fattore religioso se non in casi
particolarissimi perché questa rientrava nella più ampia disponibilità degli Stati
nazionali. D’altra parte, qualunque trattato noi vediamo dell’Unione Europea, del
Consiglio d’Europa, non c’è mai scritto che questa competenza è della Corte di Strasburgo.
D.
– Un aspetto più doloroso, assurdo, della pronuncia è la definizione del Crocifisso
come un “simbolo di parte che divide, che limita la libertà d’educazione”…
R.
– Questo è l’aspetto più doloroso ma anche il più grave per un giudice. Un giudice
europeo che considera il Crocifisso un elemento di parte contraddice addirittura il
buon senso, la conoscenza minima della storia. E’ qui che si vede il profilo ideologico,
perché chiunque – nel mondo e non solo in Europa – guarda il Crocifisso, di qualunque
religione sia - come quando noi guardiamo il Buddha compassionevole - ecco, nessuno
di noi pensa che questo simbolo possa dividere. Questo è l’aspetto più negativo della
sentenza dal punto di vista culturale. E’ qualcosa che un giudice europeo non può
fare perché va contro la conoscenza minima della storia e della realtà dei nostri
giorni.
D. – Diceva Chesterton che “quando gli uomini
smetteranno di credere in Dio, potranno credere in ogni cosa”. Sembra proprio esserci
un progetto volto a togliere i simboli religiosi e quindi portare alla dimenticanza,
alla perdita della memoria…
R. – Penso una cosa:
questa sentenza sarebbe stata perfetta due secoli fa, quando avevamo un vetero-illuminismo
che voleva cancellare i segni della religione dappertutto. Poi, dopo, avendo cancellato
tutto, Robespierre si dovette inventare la “dea Ragione” per dire, come accennava
lei, che poi gli uomini credono a tutto. E’ quindi una sentenza vecchia, di un’epoca
in cui c’era il forte contrasto tra Stato e Chiesa. Oggi noi abbiamo una situazione
in cui la laicità è inclusiva, accoglie gli altri, non esclude nessuno.
D.
– Sembra esserci una volontà, in molti ambienti in Europa, di ridurre l’elemento religioso
alla dimensione privata. Una cosa impensabile in una realtà come gli Stati Uniti,
che pure sono una democrazia moderna, pluralista…
R.
– Questo è il peccato d’origine dell’Europa, che usa la parola “separatismo americano”
come se fosse uguale a come lo intendiamo noi. Per gli Stati Uniti le religioni hanno
la più ampia presenza pubblica, politica, sociale; nessuno si lamenta di questo. E
ciò, naturalmente, apre la discussione. Una discussione che porta a far accentuare
l’incontro fra gli uomini e non a tacere, a cancellare l’identità di ciascuno di noi.
Consideriamo questo: l’Italia ha una storia compatta, che nasce dall’età romana e
dal cristianesimo. Il simbolo religioso, quindi, è qualcosa che coinvolge tutta la
nostra identità. Negli Stati Uniti è impensabile una cosa del genere. Nessuno proprio
ci penserebbe, perché tutti sono liberi di manifestare, venerare i propri simboli
e quindi dialogare.