Anno sacerdotale, l'esperienza di padre James Lengarin, missionario in Europa e in
Kenya
Essere missionari significa lasciare casa, terra, cultura e tradizioni, offrendo la
propria vita per portare il Vangelo, nei Paesi dell’Occidente ricco e sviluppato come
tra i popoli più poveri del pianeta. Ma significa anche vivere tra confratelli di
molteplici nazionalità, testimoniando, giorno dopo giorno, come l’unità nella diversità
sia un miracolo possibile. E’ l’esperienza di padre James Lengarin, keniano,
da 15 anni missionario della Consolata, prima in Europa ed ora in Kenya, nella provincia
di Nyeri. Al microfono di Claudia Di Lorenzi, racconta come è nata la sua vocazione:
R. – Io sono
figlio di pastori nomadi dei Samburu. Nella mia vita c’è sempre stata la domanda:
cosa devo fare della mia vita? Mi piaceva molto aiutare le persone che venivano da
noi, che non avevano tante mucche come noi; di andare ad assistere gli altri che erano
meno fortunati di me. Mio padre è stato ucciso da un elefante tre-quattro mesi prima
della mia nascita, e quindi quando sono nato c’era soltanto la mamma. Eravamo otto
e la mamma doveva occuparsi di tutti noi. Anche alla mamma piaceva questo mio modo
di fare … Un giorno ho detto: “Mamma, senti, io devo andare in seminario dove si insegna
alla gente ad andare ad aiutare gli altri, anche fuori dalla nostra famiglia, fuori
dalla nostra nazione”. E lei disse: “Va bene …”. Mia madre, la sera, pregava; al mattino,
pregava, ringraziando il Signore per tutto quello che aveva avuto, e io la sentivo,
perché dormivamo tutti insieme. E questo mi ha sostenuto in tutta la mia vita, fino
ad adesso …
D. – Perché la scelta di farsi missionario?
R. – La scelta di farmi missionario è stata veramente
la sfida di andare oltre la mia vita di casa, perché queste persone che sono venute
da lontano hanno cercato di aiutare soprattutto le persone che non avevano neanche
il denaro per mandare i bambini a scuola. Ma amandole! Mi ricordo che quando mia madre,
quando le ho parlato dei Missionari della Consolata, che erano soltanto bianchi, mi
ha detto: “Ma non ti vedi che sei nero?”. Io le ho risposto: “Senti, mamma, io andrò
a lavorare con loro e io sarò anche una sfida per loro!”.
D.
– In Kenya ha formato novizi missionari di diverse nazionalità che ora vivono e operano
insieme. Quali gioie ripagano la difficoltà di lasciare tutto?
R.
– La cosa più bella è stare insieme: l’altro apre il mio cuore, la mia mente e aprendomi,
i pregiudizi che avevo verso gli altri, diminuiscono e così nascono i valori del rispetto,
della solidarietà, della condivisione, della giustizia, della pace che si crea con
lo stare insieme. Vivo con confratelli di diversi continenti, eppure mi sento a casa
mia. Queste sono le cose belle che si possono fare sempre, però bisogna lasciare qualcosa.
Se non lasci trasformare la tua vita, questo non sarà possibile. Ci vuole apertura
di mente, un cuore grande … Solo Gesù Cristo ci fa vivere tutto questo. Altrimenti
anche noi saremo soltanto “turisti” … Una delle sfide è anche quella di lasciare la
casa per tanti anni: nei primi anni, i contatti non sono stati facili! Nel ’90 non
c’erano ancora i telefonini, come adesso: potevi mandare una lettera, che sarebbe
arrivata dopo due mesi. Però, se ami tanto quello che ti ha portato lì, anche queste
piccole cose che fanno parte della vita, fanno bene! Io parto per la fede, e questa
fede mi porta tante cose che altrimenti non potrei nemmeno immaginare di potere avere!
D.
– Nella regione di Nyeri i missionari della Consolata sono impegnati in progetti di
assistenza. Di cosa si tratta?
R. – Cerchiamo di
aiutare con quelle cose che portano speranza. Non soltanto il cibo, che finisce subito.
Noi aiutiamo soprattutto i bambini affinché non diventino delinquenti: insegniamo
loro come vivere insieme … In questo momento si parla di giustizia e di pace per l’Africa:
nell’insegnare, parliamo di giustizia, parliamo di riconciliazione. Si inizia proprio
da lì: attraverso i bambini, arriviamo anche alle famiglie.
D.
– Quale auspicio per il Sinodo dei vescovi sull’Africa in corso in questi giorni?
R. – Auguro che l’Africa sia veramente un continente
che possa evangelizzare: siccome noi abbiamo ricevuto tanto, è venuto il momento anche
in cui noi dobbiamo dare. E credo che questo Sinodo sia rivolto non soltanto ai nostri
vescovi, sacerdoti e religiose ma anche ai nostri laici: per dare loro maggiore responsabilità.
Per giungere alla riconciliazione, alla giustizia, alla pace ciascun singolo membro
della Chiesa deve fare la propria parte, e poi tutti insieme.