Intervista con Mons. Joachim Ntahondereye, Vescovo di Muynga (BURUNDI)
Questa mattina, dunque, i Padri Sinodali hanno levato un appello per la fine delle
violenze nella Regione dei Grandi Laghi. L’area, che comprende Rwanda, Burundi Uganda
e parte della Repubblica Democratica del Congo, della Tanzania e del Kenya, è divenuta
negli ultimi decenni scenario di guerre civili che hanno causato situazioni di estrema
povertà. Applaudita al Sinodo la proposta di convocare una Conferenza Internazionale
sulla pace e la riconciliazione nella regione. A lanciarla è stato mons. Joachim
Ntahondereye, vescovo di Muynga in Burundi. Paolo Ondarza lo ha intervistato.
R. – E’ un evento
che dovrebbe coinvolgere tutte le Conferenze episcopali della regione, e poi avremmo
anche la partnership della rete cattolica per l’edificazione della pace, che ha base
in America. Ci hanno assicurato il loro appoggio: dobbiamo fare tutto il possibile,
prima anche di gridare aiuto. E così, magari anche gli altri ci verranno in aiuto,
perché vedranno che stiamo facendo tutto il possibile.
D. – Si tratta anche
di realtà diverse tra loro, ma assieme possono riflettere sulla edificazione della
pace, sulla fine delle violenze?
R. – Sì, sicuramente. Perché già è stato fatto
tanto, a livello di ogni singola nazione, e magari gli altri non lo sanno … Per questo
è importante mettersi insieme per scambiarsi le informazioni, ma soprattutto anche
per mettere in piedi una struttura che ci aiuti a coordinare tutto ciò che tentiamo
di fare. Anche perché sì, è vero, ci sono differenze ma ci sono anche fattori comuni
a tutte le nazioni della zona e che quindi dobbiamo tenere in conto quando cerchiamo
di costruire la pace.
D. - Dalla Regione dei Grandi Laghi ci giungono frequentemente
notizie di violenze, povertà, guerre, talvolta notizie di difficoltà serie per la
vita della Chiesa …
R. – Questo è vero, le difficoltà ci sono. La Chiesa è
molto impegnata a livello di ogni singola nazione ma anche a livello regionale. C’è
la “Secam” per la Repubblica Democratica del Congo, il Rwanda e il Burundi e poi,
dall’altra parte c’è l’“Amecea” per la Tanzania, Kenya, Uganda, Zambia, Sudan. Però
ci rendiamo conto che le nostre problematiche vanno al di là dei confini di queste
nostre due Conferenze. Lo abbiamo visto nelle guerre che si sono svolte e che si svolgono
purtroppo ancora nella Repubblica Democratica del Congo: sono partite dall’Uganda,
che appartiene all’Amecea e poi, quando si è trattato di negoziare, di cercare di
porre fine a queste guerre, sono stati coinvolti questi Paesi. Per questo, anche a
livello di Chiesa dobbiamo unirci, anche per quanto riguarda la lotta contro la povertà.
Quindi, se noi andiamo avanti magari chiudendoci soltanto in queste strutture che
abbiamo ereditato anche dalla colonizzazione, non potremmo mai riuscire a risolvere
certi problemi.
D. – Le violenze che vengono compiuti anche contro i cristiani,
mi riferisco alla situazione della Repubblica Democratica del Congo: qual è il significato?
R.
– Non sono sicuro di avere tutte le chiavi di lettura che occorrono per poter interpretare
la situazione, ma penso che non si tratti soltanto di colpire delle persone specifiche,
quanto di far tacere l’istituzione come tale, perché purtroppo ci sono tanti gruppi
e gruppuscoli armati che non accettano il lavoro della Chiesa, soprattutto quando
denuncia le ingiustizie e gli atti di violenza che vengono commessi. Per questo, mirano
a certe persone chiave per dire: se continuate su questa strada, anche voi correte
il rischio di subire la stessa sorte.