Sinodo per l'Africa: chiusa la prima settimana di lavori. Intervista con l'arcivescovo
di Addis Abeba
Stamani con la decima Congregazione generale, nel giorno in cui la Chiesa celebra
la memoria di San Daniele Comboni, evangelizzatore e protettore del continente africano,
si è chiusa la prima settimana di lavori del secondo Sinodo dei Vescovi per l’Africa,
in corso in Vaticano sui temi della riconciliazione, la giustizia e la pace. Oggi
pomeriggio, alle 18.00, i Padri Sinodali si sposteranno in Aula Paolo VI per assistere
alla Preghiera del Rosario “con l’Africa e per l’Africa”, guidata da Benedetto XVI,
insieme agli universitari degli Atenei romani. Collegati via satellite ci saranno
anche i giovani studenti di nove Paesi africani: Egitto, Kenya, Sudan, Madagascar,
Sud Africa, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico e Burkina Faso. Durante
i lavori sinodali di questa mattina, intanto, si è riflettuto sul ruolo primario della
famiglia come strumento di pace, sulla difesa delle donne e sulla tutela degli immigrati.
La cronaca nel servizio di Isabella Piro:
Se educhiamo
un uomo, educhiamo un individuo, ma se educhiamo una donna, educhiamo una famiglia
e, attraverso di essa, un’intera nazione. Questa riflessione ha sintetizzato al meglio
l’importanza che il Sinodo dei Vescovi ha riservato, durante i lavori odierni, alla
difesa della famiglia e delle donne. Perché è da esse che inizia il processo di pace.
Nel nucleo familiare, inteso come “Chiesa domestica”, infatti, si nutrono e si condividono
i valori spirituali necessari alla riconciliazione. No, quindi, alle violenze sulle
donne, no alla poligamia, no alla terribile usanza di sacrificare il figlio primogenito.
Sì, invece, ad una maggiore diffusione della “Carta dei diritti della famiglia” perché
diventi il cardine dei dibattiti democratici; e sì anche ad una catechesi familiare
continua e ad organi diocesani speciali che siano in costante dialogo con le autorità
civili, per assicurare che le necessità della famiglia siano rispettate. L’Aula
del Sinodo ha guardato, poi, agli immigrati africani, presenti in molti Paesi dell’Occidente
e si è appellata perché non vengano mai negati loro i diritti e l’assistenza, come
invece avviene frequentemente. Allo stesso tempo, i Padri Sinodali ribadiscono: non
saranno le barriere politiche a fermare le migrazioni clandestine, ma la riduzione
effettiva della povertà attraverso lo sviluppo economico e sociale dell’Africa. Tra
gli altri temi salienti, la necessità di una riflessione sui matrimoni misti, l’invito
rivolto ai fedeli laici ad essere attivi nella vita politica, senza dimenticare i
valori cristiani, e l’appello per l’abolizione della pena di morte in tutta l’Africa.
Poi, alcuni suggerimenti: pensare ad un nuovo rito di esorcismo,
basato sul vecchio, per combattere la stregoneria molto diffusa in Africa; puntare
al microcredito per aiutare i poveri e proteggere l’ecosistema per conseguire la pace.
Ieri pomeriggio, invece, i Padri Sinodali hanno riflettuto
sul ruolo dei rappresentanti pontifici che, si è detto, danno voce al Papa nella difesa
della dignità della persona e dei suoi diritti fondamentali. Centrale anche l’auspicio
che si possa cancellare il debito estero dell’Africa e che si giunga alla creazione
di un osservatorio permanente per la prevenzione dei conflitti. Particolare, inoltre,
il suggerimento di pensare ad una pastorale nomade per tutti gli africani non stanziali.
Ma a dominare il pomeriggio di ieri è stato l’intervento di
Rudolf Adada, già capo dell’Unamid, la missione di pace nel Darfur
istituita nel 2007 congiuntamente dall’Onu e dall’Unione Africana. In veste di Invitato
Speciale al Sinodo e alla presenza del Papa, Adada ha ricordato che con 200mila militari,
6mila poliziotti e altrettanti civili, l’Unamid è la missione di pace più grande del
mondo. Ma non basta, perché il conflitto nella regione sudanese occidentale del Darfur,
che va avanti da sei anni, non vede all’orizzonte un accordo di pace e questa missione
di peacekeeping, in realtà, non ha pace da mantenere: "Aujourd’hui,
en termes purement numériques, nous pouvons dire…" Certo, ha ribadito Adada,
dopo il periodo critico del 2004, oggi si può dire che il conflitto del Darfur è di
bassa intensità, ma solo in termini numerici, perché esso non è affatto concluso.
Serve un accordo di pace, allora, che sia inclusivo e comprenda tutta la società civile.
"Il
n’y a pas de solution militaire au problème du Darfour…" Non c’è soluzione
militare per il Darfur, ha aggiunto Adada, ma occorre un accordo politico. Nel suo
intervento, Adada si è soffermato anche sul mandato di arresto spiccato dalla Corte
penale internazionale contro il presidente del Sudan, Omar al-Bashir e, a titolo strettamente
personale, ha parlato della creazione di una situazione di stallo: chi vorrebbe negoziare
con un presidente che finirà arrestato? Infine, l’Invitato Speciale
al Sinodo ha chiesto un rafforzamento dell’Unamid e ha ribadito: "L’Église
a un rôle majeur à jouer dans un Soudan…" La Chiesa è una forza di pace
ed ha un ruolo preminente da svolgere nel Sudan, Paese cerniera tra due mondi, l’Africa
e il mondo arabo. Dal Sinodo è partita intanto la proposta di nominare
un rappresentante permanente della Santa Sede presso l’Unione Africana che partecipi
alle riunioni e possa mantenere un contatto personale con i membri di questa istituzione.
L’iniziativa è stata presentata dall’arcivescovo di Addis Abeba e presidente della
Conferenza episcopale etiopica, mons. Berhaneyesus Demerew Souraphiel. Nel
suo intervento il presule ha anche esortato il Sinodo a studiare le cause alla base
del traffico di esseri umani e delle migrazioni. “La vita degli africani è sacra e
non priva di valore come invece sembra essere vista da molti media”, ha detto mons
Souraphiel. Paolo Ondarza lo ha intervistato a partire dalla proposta di un
rappresentante della Santa Sede all’Unione Africana:
R. – Questo
sarebbe molto importante, perché la Chiesa universale ha una voce forte. Grazie a
Dio, la voce del Papa e della Santa Sede ha un valore grande. Così, se la Santa Sede
avesse un nunzio all’Unione Africana, la voce della Chiesa africana potrebbe essere
sentita meglio. D. – E questo lei crede sarebbe accolto bene
anche da quei Paesi a maggioranza musulmana? R. – Penso di sì,
perché in molti casi i musulmani considerano la posizione cattolica, come per esempio
per quanto riguarda il rispetto della vita. Noi educhiamo tanti musulmani, nelle nostre
scuole e per questo loro sanno che noi svolgiamo questo lavoro senza forzare i musulmani
a diventare cattolici; invece, diciamo loro che devono studiare per diventare voce
per il loro popolo. Ma a livello dell’Unione Africana, più della metà dei membri sono
cattolici! Ecco perché penso che questo nunzio possa anche aiutarli a prendere posizione
secondo gli insegnamenti della Dottrina sociale della Chiesa. D.
– Lei ha invitato a studiare le cause che sono alla base del traffico di esseri umani
… R. – Io penso che questa situazione sia molto, molto seria
per quanto riguarda la tratta delle donne e dei minori. Dal Sinodo deve uscire una
forte presa di posizione su questo! D. – Lei crede che una delle
cause della tratta risieda in Africa? R. – Sì: deve esistere
una sorta di “accordo” internazionale, perché le persone non arrivano facilmente in
Europa! Ci sono persone che hanno già pronti i visti d’ingresso: chi organizza tutto
questo? Dopo gli armamenti e la droga, la tratta degli esseri umani è ora un business
internazionale! D. – Mons. Souraphiel, mi volevo soffermare
sulla situazione nel suo Paese, in particolare per quanto riguarda la vita della Chiesa,
la condizione dei cristiani … R. – La Chiesa cattolica non è
molto diffusa, in Etiopia, conta solo l’un per cento della popolazione. Lei sa che
ha parlato, qui, il Patriarca Abuna Paulos della Chiesa ortodossa etiopica: loro rappresentano
più del 45% della popolazione, per oltre 40 milioni di cristiani ortodossi in Etiopia.
In Etiopia, i cristiani vogliono rimanere nel loro Paese … D.
– Lei ha detto che la povertà è una piaga per l’Etiopia … R.
– Devo dire che molte donne emigrano verso il Medio Oriente: perché vanno lì? Perché
in Africa non c’è lavoro. Ma per andare lì, prima di tutto devono cambiare il loro
nome cristiano in un nome musulmano, devono vestire come i musulmani … Posso dire
che per la prima volta, in Etiopia, la povertà sta costringendo le persone a rinnegare
la loro eredità cristiana. Quindi, emigrano, non sono pagati molto perché non sono
qualificati … Ecco perché dico che ci sono cose che noi africani dobbiamo cambiare.
Quando le donne o altre persone emigrano, è meglio preparare bene queste persone,
offrire loro una preparazione professionale qualificata in modo che possano guadagnare
di più e mandare più denaro alla loro famiglia, nel Paese d’origine.