Violenze anticristiane e rispetto dei migranti al centro del Sinodo. Intervista col
vicario apostolico di Tripoli
È entrato nel vivo il secondo Sinodo dei Vescovi per l’Africa, in corso in Vaticano
sui temi della riconciliazione, della giustizia e della pace. Oggi, prima sessione
di lavoro per i Circoli minori. In mattinata, inoltre, una delegazione dei Padri Sinodali
si è recata in Campidoglio per un incontro con il sindaco di Roma, Gianni Alemanno.
Ieri pomeriggio, intanto, i lavori del Sinodo sono proseguiti con la quarta Congregazione
generale. Numerosi i temi emersi dall’Aula, come le violenze contro i cristiani, la
necessità di una “conversione ecologica” dell’Africa e il problema delle migrazioni.
Ce ne parla Isabella Piro:
Una sessione
pomeridiana punteggiata da diversi applausi, quella di ieri pomeriggio: applausi di
solidarietà, incoraggiamento, approvazione di temi più sentiti, emersi dai lavori.
Ad aprire la seduta, la testimonianza toccante della Repubblica Democratica del Congo,
dove alcune parrocchie hanno subito attacchi ed atti di intimidazione. Gesti con i
quali, si è detto in Aula, si vorrebbe ridurre al silenzio la Chiesa, l’unico sostegno
di un popolo terrorizzato, umiliato e sfruttato.
Poi,
il grande tema dei rapporti con le sètte: una sfida urgente da affrontare anche con
autocritica, hanno ribadito i Padri Sinodali, cercando di capire cosa non è sufficiente
nel lavoro pastorale. Auspicato anche un nuovo slancio nelle relazioni ecumeniche
e una comprensione specifica delle espressioni culturali africane.
Quindi,
l’Aula del Sinodo ha lanciato un appello perché la Chiesa in Africa susciti una “conversione
ecologica” attraverso l’educazione, così che il Paese non sia più vittima dello sfruttamento
petrolifero, della deforestazione, dello smaltimento dei rifiuti tossici. Centrale
anche la necessità di una formazione sacerdotale adeguata, che punti al passaggio
dal “dialogo tra le culture” alla “cultura del dialogo”.
E
ancora, l’incoraggiamento ai laici, che possono fare da “interfaccia” evangelizzatrice
tra la Chiesa e il mondo, e il sostegno ai Tribunali Penali Internazionali, affinché
ristabiliscano giustizia e pace sulla base della verità. Perché, come diceva Giovanni
Paolo II, “Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono”. Da segnalare,
inoltre, l’auspicio che l’Unione Africana includa un rappresentante permanente della
Santa Sede e un osservatore del Simposio delle Conferenze episcopali dell’Africa e
del Madagascar.
Infine, la pagina tragica dei migranti,
degli sfollati, dei richiedenti asilo, una realtà che in Africa riguarda più di dieci
milioni di persone, vittime di sfruttamento e del disprezzo dei diritti umani. Molte
di esse vanno in Libia, Paese-ponte verso l’Europa, ma poi spesso rimangono nell’illegalità,
sono vittime di sfruttamento sessuale, rischiano il carcere, non hanno accesso all’assistenza
legale e sanitaria, Di qui, la speranza che il Sinodo studi le cause che sono
alla base del traffico di esseri umani, del dramma dei “barconi”, per dimostrare al
mondo che la vita degli africani è sacra, e non è priva di valore, come invece
viene presentata da molti mass media.
Sul dramma degli
immigrati africani, che come abbiamo detto riguarda oltre dieci milioni di persone,
ieri al Sinodo è intervenuto mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, vescovo di
Tabuda e vicario apostolico di Tripoli, in Libia. Paolo Ondarza lo ha intervistato:
R. – Noi
siamo testimoni di una presenza di immigrati che vengono da tutte le parti dell’Africa.
Non voglio entrare in merito ai respingimenti, ma ho sottolineato più volte l’importanza
di non rifiutarli, di assisterli almeno in Libia, perché rigettarli e disinteressarsi
di loro è contro i diritti dell’uomo ed è anche contro la nostra civiltà umana, cristiana
o quello che sia.
D. – Qual è l’azione di soccorso
della Chiesa in Libia verso queste persone?
R. –
Noi, nel nostro piccolo, in Libia, cerchiamo di seguire questa massa di gente nei
centri di raccolta, dove i libici danno possibilità di incontrarla, di visitarla,
di assisterla spiritualmente e pastoralmente. Lo facciamo per i cristiani, ma anche
per tutti gli altri, e ce ne sono tanti. Noi cerchiamo di assisterli sul piano materiale,
offrendo da mangiare. Abbiamo assistito persone, portando coperte e vestiti, e le
abbiamo assistite soprattutto sul piano medico. Settimanalmente le nostre suore si
interessano di tante donne gestanti e devono, quindi, essere accompagnate all’ospedale.
Non hanno documenti e la suora offre il proprio passaporto, si prende cura di loro,
cercando di assisterle, affinché possano dare alla luce i loro bambini. Hanno attraversato
il deserto e sono persone veramente povere. Mi riferisco in particolare a questa massa
di eritrei che arriva in Libia, decisa a non ritornare nel proprio Paese, ma piuttosto
ad essere accolta in Occidente.
D. – Quante delle
persone respinte, da quello che lei ha potuto conoscere e sapere, sono richiedenti
asilo?
R. – Non sono in grado di capire se tutta
questa gente ha diritto di avere asilo politico o meno. Io non guardo in faccia le
persone. Vedo che hanno bisogno di mangiare, hanno bisogno di essere curate. Non vedo
se hanno diritto o non hanno diritto. Io vedo gente che ha bisogno. Non domandiamo
niente: hanno bisogno e quindi diamo. Se c’è qualcuno che riusciamo a capire che vuole
ritornare al proprio Paese, lo accompagniamo agli uffici competenti. Accompagniamo
le altre persone all’ufficio delle Nazioni Unite per avere una carta delle Nazioni
Unite, la carta di rifugiato, che è un documento di identità, che come ben si sa non
è riconosciuto dalla Libia. Questo forse potrebbe essere un appello: facciamo in modo
che abbiano un documento che sia riconosciuto, accettato anche dalle autorità libiche.
Allora, mi domando, come fare, perché questa gente possa avere un documento per farsi
valere nella propria identità.