Intervista con il vicario apostolico di Tripoli, Mons. Giovanni Innocenzo Martinelli
(LIBIA)
Sul dramma degli immigrati africani, che riguarda oltre dieci milioni di persone,
ieri al Sinodo è intervenuto mons. Giovanni Innocenzo Martinelli, vescovo di
Tabuda e vicario apostolico di Tripoli, in Libia. Paolo Ondarza lo ha intervistato:
R. – Noi siamo
testimoni di una presenza di immigrati che vengono da tutte le parti dell’Africa.
Non voglio entrare in merito ai respingimenti, ma ho sottolineato più volte l’importanza
di non rifiutarli, di assisterli almeno in Libia, perché rigettarli e disinteressarsi
di loro è contro i diritti dell’uomo ed è anche contro la nostra civiltà umana, cristiana
o quello che sia.
D. – Qual è l’azione di soccorso della Chiesa in Libia verso
queste persone?
R. – Noi, nel nostro piccolo, in Libia, cerchiamo di seguire
questa massa di gente nei centri di raccolta, dove i libici danno possibilità di incontrarla,
di visitarla, di assisterla spiritualmente e pastoralmente. Lo facciamo per i cristiani,
ma anche per tutti gli altri, e ce ne sono tanti. Noi cerchiamo di assisterli sul
piano materiale, offrendo da mangiare. Abbiamo assistito persone, portando coperte
e vestiti, e le abbiamo assistite soprattutto sul piano medico. Settimanalmente le
nostre suore si interessano di tante donne gestanti e devono, quindi, essere accompagnate
all’ospedale. Non hanno documenti e la suora offre il proprio passaporto, si prende
cura di loro, cercando di assisterle, affinché possano dare alla luce i loro bambini.
Hanno attraversato il deserto e sono persone veramente povere. Mi riferisco in particolare
a questa massa di eritrei che arriva in Libia, decisa a non ritornare nel proprio
Paese, ma piuttosto ad essere accolta in Occidente.
D. – Quante delle persone
respinte, da quello che lei ha potuto conoscere e sapere, sono richiedenti asilo?
R.
– Non sono in grado di capire se tutta questa gente ha diritto di avere asilo politico
o meno. Io non guardo in faccia le persone. Vedo che hanno bisogno di mangiare, hanno
bisogno di essere curate. Non vedo se hanno diritto o non hanno diritto. Io vedo gente
che ha bisogno. Non domandiamo niente: hanno bisogno e quindi diamo. Se c’è qualcuno
che riusciamo a capire che vuole ritornare al proprio Paese, lo accompagniamo agli
uffici competenti. Accompagniamo le altre persone all’ufficio delle Nazioni Unite
per avere una carta delle Nazioni Unite, la carta di rifugiato, che è un documento
di identità, che come ben si sa non è riconosciuto dalla Libia. Questo forse potrebbe
essere un appello: facciamo in modo che abbiano un documento che sia riconosciuto,
accettato anche dalle autorità libiche. Allora, mi domando, come fare, perché questa
gente possa avere un documento per farsi valere nella propria identità.